Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

MIRO GABRIELE, “VERTIGINOSA ERBA” – COME RICOMPORRE LE INSEPARATE FECONDITÀ DI CUORE E LINGUAGGIO (di Matteo Fais)

“[…] provi in un angolo/ a tollerare il mattino senza uscita/ che oggi all’apice breve che ci contiene/ lascia solo un’ombra di me […] Di qualche mio rapido anno costretto/ a confondere inclinazioni e affinità,/ impreparata passione mi spinge/ dove tutto ci manca” (Miro Gabriele, Vertiginosa erba, Ensamble).

Il tanto denunciato fatto che oggi tutti scrivano – una colossale falsità –, oltre a porre il fruitore di fronte alla necessità materiale di scegliere cosa leggere, ha la bellezza di generare una polifonia che, per quanto possa lasciare spiazzati, restituisce il senso di tutte le possibili visioni che, tra i viventi, coesistono contemporaneamente.

La moltiplicazione delle voci fotografata dalla postmodernità è una realtà con cui si ha da fare i conti. Vedere come una ricchezza la frammentazione del discorso è una scelta, una posizione morale e filosofica: il mondo non esiste, se non nelle milioni di narrazioni che di questo si danno, per quanto schizofrenica o dissociata possa apparire la cosa.

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In arte, come a livello ideologico, ciò genera non pochi mal di pancia. Il pubblico, malgrado tutto, cerca definizioni univoche e paradigmi stringenti che, per fortuna, la produzione reale scompagina continuamente. Ben venga, dunque, una poesia certo molto distante dal sentire comune attuale, una lirica dal gusto curiosamente vintage, come si direbbe oggigiorno, certo spostata sull’asse temporale verso una dimensione oramai classica.

Si pensi, per esempio, all’ultima opera in rima di Miro Gabriele, Vertiginosa erba (Ensamble), ben composta, aulica senza eccessi ridicoli, intimista e posata, sussurrata e meditativa, costruita attingendo agli strumenti e a un linguaggio per così dire tradizionale, senza rovinose cadute nel epigonismo.

Volendo rifarsi alle parole dell’autore, si potrebbe definire il suo versificare come un tentativo di ricomporre “cuore e linguaggio, inseparate fecondità”, accettando umilmente la prospettiva che tale sforzo sia sempre – e lo è per tutti – una “fatale approssimazione”.

Quello che emerge chiaramente leggendo la raccolta è come il poeta affronti il vertiginoso dell’esserci senza pretendere di farsi io assoluto contro di esso, ingombrante soggettività, accettando, con una sorta di stoico abbandono, di sostare quale semplice presenza: “Fredda vacuità della notte che perde/ soavi schegge di stelle una per una, luci/ elegiache in un’ampiezza che appena mi tollera/ troppo tenero velo a queste estreme visioni”.

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Egli assume la posizione dell’apertura alla meraviglia e alla rivelazione, ricevendole in tutte le loro sfaccettature, dal positivo al negativo, cercando intuitivamente un percorso dal macrocosmo dell’Essere al microcosmo umano (“Resto infine a osservare/ l’inclinazione di un punto astronomico/ qualche nuvola senza volume/ apre astratti frammenti nel cielo,/ per mistica ipotesi attendo il riflesso/ che getta vita/ nell’illusione di una finestra”; “e una donna lì si allontana nel vago/ presagio della fermezza del cielo/ cullando la sua vita di sabbia e i desideri amari/ con lei l’azzurro del fumo incontra la notte/ malinconiche stelle di automobili sul tiepido asfalto/ lasciano un vento improvviso di attesa/ e il giorno precipita, è un lampo/ quasi disperso sulle rime dei volti,/ il mare scorre/ dentro il nostro cuore oscuro”).

Quindi un testo che è lezione di arte contemplativa, in cui la distanza non è mai fredda osservazione ma flusso dialettico di emotività tra il mondo e il soggetto. Anche nella narrazione sentimentale, l’oggetto d’amore viene penetrato con l’interrogativo, cercando il senso dei simboli di cui si fa portatore (“nella piega delle labbra il segno/ improvviso della tua rapida vita”; “Un sorriso una maglietta a righe/ una piccola gonna che ostenti/ ai volti duri che gettano ansie e illusioni/ sulla tua vita affilata”). Da questo non si pretende, si attende, ci si pone nella fiduciosa aspettativa del dono (“Momentanei tuoi occhi svelano/ altezza di sogni, istinti di gioia perfetta/ in questa folla che si scompone,/ mi fermo affannato a la muta/ domanda di umana dolcezza”).

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Si è, insomma, in presenza di una apertura diffusa alla metafisica estesa fin dentro i meandri del quotidiano, includendo il paesaggio, anche metropolitano (“Un giro a vuoto sulle tracce della notte/ sopra i miei passi che tardano nel buio, la città/ stringe la vita al lampo dei semafori/ ironici sorrisi nel vuoto degli inverni”), e i rapporti umani, come la riflessione personale (“Di mattina conto i fili d’incoscienza/ rimasti impigliati alla mia mente/ nelle lunghe scosse della notte/ le dita pescano nelle giostre mentali/ dentro piazzali bruciati dal sole”). 

È molto probabile che un giovane senta di non aver niente a che spartire con una simile attitudine rispetto al mondo e alla vita, così distante del consumismo sguaiato che tritura persone come attimi, ingabbiati in foto riposte nella galleria dello smartphone. Della qual cosa è lecito disinteressarsi. Le vecchie generazioni hanno tutto il diritto di dire ancora la loro, di insegnarci a ritrovare l’attesa e il mistero.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

Un commento su “MIRO GABRIELE, “VERTIGINOSA ERBA” – COME RICOMPORRE LE INSEPARATE FECONDITÀ DI CUORE E LINGUAGGIO (di Matteo Fais)

  1. Una recensione scintillante, per l’acutezza di scrittura e per la capacità visionaria di entrare nel profondo del tessuto poetico.

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