Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

SU TUTTO CIÒ DI CUI NON SI PUÒ PARLARE SI DEVE FARE POESIA: LA LIRICA DI FRANCA ALAIMO (di Matteo Fais)

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“Ho qui, dentro il petto, un groviglio così fitto di spine, che le parole ne hanno paura. Si limitano a vedermi sanguinare e mi lasciano sola a intingere il dito nell’inchiostro vermiglio del dolore. Ma restate, lo stesso, ve ne prego, accoccolate ai margini del foglio, e fatemi capire, anche con muti cenni, che mi amerete ancora”. (Franca Alaimo, 7 Poemetti, Interno Libri Edizioni).

Puntualmente, ritorna l’annosa domanda sul perché tanta gente scriva poesia. L’interrogativo, soprattutto in questi tempi social, si può ben capire, è un po’ sciocco e frutto di un effetto lente: come chiedersi, al mercato ittico, perché tutti vendano pesce. È abbastanza ovvio che una persona, dopo una certa età, si circondi di suoi simili, sprofondando in un Noi che tende spesso a non considerare il variegato mondo che lo circonda.

A ogni buon conto, la questione del perché si scriva poesia, come più in generale del fare arte, è presto risolta: perché certe cose non si possono dire se non in quel modo e in tale particolare forma. Tutto ciò che è incanto, fuga mistica, persino un certo modo di declinare il realismo sfugge a una matematica rappresentazione di questo.

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In fondo, se è pur vero che tanti tra sociologi, antropologi e psicologi hanno tentato di apporre le loro griglie concettuali sull’oscura faccenda amorosa, è altresì vero che i loro discorsi hanno sempre escluso e lasciato fuori qualcosa, un inespresso a cui non si poteva cercare di dare voce se non con una lingua imperfetta, nel senso di evanescente, aliena alla divisione netta e alla certezza.

In ultimo, non è vero che di tutto ciò di cui non si può parlare, ovvero ciò che è oltre il matematico e il logico, si deve tacere. Di ciò se ne rese conto anche il buon Wittgenstein. Semplicemente, se ne parla in altri termini, più sfuggenti, senza richiedere una comprensione assoluta, accettando la vertigine del “se nessuno me lo chiede, so cosa sia; se qualcuno me lo domandasse, non saprei definirlo”. Il patto è sostituire, alla violenza di un linguaggio che sia specchio del mondo, la debolezza di un idioma che si fa mondo, lo crea, arrischiandosi a dire ciò che non vuole piegarsi alla rappresentazione più fredda.

Tutto ciò ben emerge dalla poesia di Franca Alaimo, nei suoi 7 Poemetti pubblicati da Interno Libri Edizioni, con la prefazione della monumentale Giovanna Rosadini. Un testo come un breviario di intimo canto cosmico. La distanza tra l’io e il mondo si fa abissale e a tratti i due estremi dell’Essere colassano l’uno nell’altro. Dio è ovunque, come un orizzonte che si allarga fino a comprendere in sé ogni cosa (“tutto è un fiume che va verso il mare/ […]Ecco che già si schiara./ Il cielo si apre come un occhio immenso./ Celeste./ Io sono ancora qui./ La porta è aperta e sta entrando il tempo,/ il tempo della vita che risorge./ Corpo di Cristo trasparente,/ luce che avanza./ L’ostia della luna/ si scioglie sulla lingua del sole./ La notte si sfarina/ in impalpabile chiarore).

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Franca Alaimo, 7 Poemetti, Interno Libri Edizioni.

Un libro di brevi poemi e passi in prosa che si confronta con il travaglio del linguaggio e il suo tentativo di dire il mistero (“Un pulviscolo lento scrive sull’aria/ una scrittura indecifrabile/ con le dita di un serafino./ Le lettere sacre sfavillano troppo/ per essere lette;/ e noi le chiamiamo destino,/ volere che non vogliamo,/ volere a cui ubbidire/ poiché nulla di noi sappiamo”). Parola che è sempre mancanza, per questo insiste, prosegue nel suo tentativo, cercando di vincere la disperazione di una reticenza congenita (“io chiamo Amore/ perché il nome è poco,/ il nome trema di fronte alla gioia,/ il nome ha un suono troppo breve/ per essere pronunciato con un giuramento”). Parola che, neanche a dirlo, è l’unico tramite, l’anello di congiunzione con la realtà che esiste solo nell’essere detta (“Tra me e il resto delle cose io posi il sogno e lo splendore dei simboli. Nell’ultimo istante giunsero, celesti segni, e io li riconobbi”).

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Una lirica che fa i conti con un infinito dolore esistenziale e che cerca nel verso il riscatto, che crea vita per salvare dalla consunzione dell’esistere (“scrivo per ricordare,/ ricordo per non sparire,/ per farmi nido in bilico sul ramo/ e accogliere la solitudine delle cose/ salvandole dal tempo, dal suo segreto/ oscuro e doloroso, quasi disumano”).

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Il punto è proprio trovare un modo affinché “la realtà si ricordi” e come, se non con la voce oscura del poeta consapevole che “di ogni cosa bisogna scrivere”. Proprio perciò, dalla metà in poi del testo, il verso lascia largo alla prosa, sempre al confine con ciò che l’ha preceduta, facendosi ancora più meditativa, ma con estrema coerenza tematica e stilistica. “Creare un verso solo”, scrive l’autrice, “Così bello da bastare a tutte le domande” – quale migliore descrizione dell’intento che anima colui che scrive in rima. E come non condividere l’interrogativo in merito alla reale possibilità di essere, poi, compresi: in ultimo, ciò che cerchiamo di trasmettere sono i nostri “movimenti di suoni nel sangue”. Tutto rimanda al paradosso della nostra condizione terrena che spinge alcuni al folle gioco della parola: “Cammino nella cecità, pur essendo inondata di luce. Le mie orecchie restano sepolte nel silenzio pur essendo le conche in cui gli angeli travasano le loro voci”.

7 Poemetti è un volume intenso. Per affrontarlo, bisogna prepararsi a inseguire mille riflessi di luce tra gli intrecci di materia di uno zaffiro. Un testo di lampi, di squarci di luce nella notte (“Circumnavighiamo sempre attorno alla bellezza, sapendo impossibile l’approdo. Per questo le sue epifanie sgomentano”). Da possedere e conservare in uno scrigno sacro, da leggere come il Vangelo, nella sua sospensione tra carnalità e metafisica. Un canto all’atroce miracolo della vita.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.

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