Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

PER SALVARSI DAL DEGRADO BALNEARE, LEGGETE “IL SOLITARIO” DI EUGÈNE IONESCO (di Matteo Fais)

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“Io non mi ribellavo. Non ero neppure rassegnato, perché non sapevo a che cosa avrei dovuto rassegnarmi o a quale società pensare per viverci con gioia. Non ero né triste né allegro, c’ero e basta, dalla testa ai piedi, prigioniero di una cosmogonia che non poteva essere diversa da quella che era, e non era questa o quest’altra società che poteva modificarne alcunché” (Eugène Ionesco, Il solitario, Rusconi).

Ci sono libri che andrebbero letti e riletti, se possibile, con la regolarità con cui un credente ripete le sue preghiere e invocazioni. Il potere di questi è unico, il loro destino intreccia quello del lettore. La potenza estetica, unita alla forza contenutistica, malgrado la negatività che li pervade, risolleva l’anima dalla miseria esistenziale, come dice mirabilmente Leopardi nello Zibaldone. La più alta forma di empatia è sapere che qualcuno, uno sconosciuto in particolare, a chilometri di distanza, ha sentito il nostro stesso turbamento, è stato scosso dal mondo secondo le medesime dinamiche interiori.

Questo è il caso di Il solitario di Eugène Ionesco (il testo è stato in origine proposto dalla Rusconi, per poi, alcuni anni fa, venir ristampato, in una nuova traduzione, da Gaffi).

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Eugène Ionesco, Il solitario, Rusconi.

Intellettuale irriducibile e inassimilabile, il rumeno, naturalizzato francese, è genericamente inquadrabile nella tendenza esistenzialista, ma senza l’adesione ultima al comunismo che fu di Sartre, o il più ragionevole riformismo che animò Camus. Dal suo punto di vista, queste soluzioni sono in fin dei conti tentativi di fuga rispetto alla angosciante insistenza delle domande fondamentali che inquietano l’esistenza umana: il motivo del nostro esistere, la sussistenza del male.

Un episodio a parte della sua produzione, fondamentalmente orientata verso l’espressione teatrale, è il primo e unico romanzo. Il testo è la storia di un uomo il quale, poco prima dei quarant’anni, riceve l’inaspettato lascito di uno zio d’America che lo salva da un’esistenza impiegatizia che palesemente il personaggio detesta dal profondo del cuore, alla faccia dell’idea di lavoro che nobiliterebbe la persona (“Ne avevo fin sopra i capelli del mio impiego. Era già tardi, non mi mancava molto ai quaranta. Sarei morto di noia e di tristezza se non mi fosse arrivata inaspettatamente l’eredità”).

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Sollevato dalla necessità di faticare per guadagnarsi il pane, il protagonista inizia una nuova esistenza, che va via via sempre più ripiegandosi su sé stessa e sul mistero del nostro esserci, rispetto al quale l’universo intorno a lui, affaccendato in ogni modo per non prestare il fianco all’angoscia, rifiuta (“Mi pareva anormale, al contrario, che le persone non ci pensassero, che si lasciassero vivere in una specie di incoscienza”). Lui, al contrario, non riesce e, in fondo, non vuole farsi travolgere dalla corrente della vita (“Io, vivevo nella catastrofe, indipendentemente da quello che succedeva all’esterno”).

Il bersaglio polemico è chiaramente la falsa coscienza dell’uomo del suo tempo, il comunista ideologizzato e persuaso che il senso ultimo della propria esistenza sia sviluppare un coscienza civile e politica per mutare il mondo intorno a sé (“Ma la sera, dopo il lavoro, mentre io passavo da un bar all’altro, Jacques, lui, si faceva una cultura. Leggeva romanzi e libri ideologici. Si era iscritto a un partito rivoluzionario. La sera si indottrinava, assimilava, probabilmente, durante il sonno, e la mattina dopo attaccava la società con furore”). 

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Ma la speranza palingenetica è una sporca illusione. Tutte le utopie formulate dal genere umano non lo salveranno dal vuoto ontologico che lo abita (“Fortunatamente la società era ingiusta. Che faranno se un giorno ci sarà una società giusta? Non potranno più rivoltarsi contro di lei, allora l’oggetto dell’angoscia apparirà in tutta la sua nudità, in tutto il suo orrore. Per me, l’angoscia era presente, nessuna società poteva porvi rimedio. E poi, tutte le società sono sbagliate, ce n’è forse stata una che sia riuscita, dai secoli dei secoli?”). In ultimo la rivoluzione è solo un patetico tentativo di eludere le domande ultime, un uccidere per non uccidersi al cospetto dell’assurdità che ci attanaglia.

Alla pars destruens dell’uomo alieno al meccanismo sociale dell’impegno non sfugge neppure la boria dell’intellettuale che, aristotelicamente, sintetizza e cataloga ogni problema, convinto che l’inquadramento di esso sia già un grande risultato e sollevi dalla cogenza delle problematiche metafisiche (“lei conosce questi problemi, lei ha letto, ha istruzione, ma questi problemi mi scuotono, per me sono una cosa viva. Per lei, questi problemi sono soltanto cultura. Lei non si sveglia tutti i giorni nell’angoscia chiedendosi quali sono le risposte, dicendosi che non esistono risposte. Ma lei sa che tutti si sono fatti quelle domande. Sa che non hanno mai trovato risposta, e che non possono trovarla. Solo, per lei, tutto questo è catalogato. Sapendo che questi problemi sono posti, sapendo chi li ha posti, sapendo che esistono tanti trattati e libri che hanno abbordato quegli argomenti, lei non se li pone più […] Hanno coltivato la disperazione, ne hanno fatto letteratura, opera d’arte. Questo non mi aiuta. È cultura, cultura. Buon per lei se la cultura ha potuto scongiurare il dramma dell’uomo, la tragedia”).

Naturalmente, persino l’amore è visto attraverso la lente del disincanto. Tutto l’intrattenersi mondano di relazioni, il sesso, il progetto della famiglia e dei figli, non è salvezza, ma indice di un’assenza che svela la nostra natura più profonda, la mancanza. La contemplazione della nudità femminile, in tal senso, non lascia scampo né dubbi: “La notte avevo qualche insonnia e una volta lei dormiva, russando leggermente, con la camicia tirata su, le gambe aperte. Il sesso femminile mi è sempre parso una specie di ferita nel basso ventre tra le cosce. Qualcosa come una voragine, ma soprattutto come una ferita aperta, enorme; inguaribile, profonda. Mi ha sempre fatto un effetto di pietà e di paura: una voragine, sì, questo era”.

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Predecessore del Houellebecq di Estensione del dominio della lotta, chiamato da Montanelli a collaborare sulle pagine di “Il Giornale”, Ionesco è una delle più grandi manifestazioni – sempre colpevolmente dimenticate – della migliore intellighenzia di Destra, quella che alla lotta di classe preferisce il sentimento dell’Assoluto, come raccontano in modo commovente le ultime immagini del libro. Perché la vera ribellione alla decadenza del mondo occidentale non è cercare di portare il paradiso in terra, come il comunismo ha sempre promesso, aprendo unicamente la botola verso il baratro, ma rivolgere gli occhi e il cuore lì dove abita la sola e unica vera possibilità dell’amore.

Insieme a La nausea e a Lo straniero, Il solitario resta uno dei testi cardine del pensiero esistenziale, il suo esito ultimo, la speranza che risorge dopo aver indagato, fino all’ultimo terrificante brivido, l’assurdo.

Matteo Fais 

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.

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