Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

“L’UOMO NELLA STANZA 24” – UN RACCONTO COME REGALO DI NATALE  (di Mark SaFranko – traduzione di Matteo Fais e Clara Carluccio)

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INTRODUZIONE

MARK SAFRANKO – L’AMICO AMERICANO, SCRITTORE

Gli americani, in letteratura, per me vogliono dire short stories – persino quando scrivono romanzi –, cioè brevità. Niente giri di parole superflui per rubare qualche pagina in più, ma un linguaggio schietto e direttissimo come un cazzotto di Iron Mike – Mike Tyson –, totalmente antitetico a quello degli italiani e dei francesi così avvezzi alla masturbazione autoreferenziale, e soprattutto autocompiaciuta, in prosa.

Da Bukowski a Fante, passando per Dubus e Carver – e come dimenticare la grandiosa Holly Goddard Jones! –, gli scrittori d’oltreoceano è indubbio che si muovano meglio nella forma più veloce del racconto. Del resto, loro non hanno mai conosciuto il pensiero lungimirante, avendo sempre condotto un’esistenza precaria, in cui di sicurezze ce n’erano veramente poche – certo non quella occupazionale.

Bukowski, infatti, non scrisse un romanzo prima dei cinquant’anni, se non ricordo male, essendo troppo impegnato a guadagnarsi il pane lavorando alle Poste. E il povero Carver disse di non aver mai potuto permettersi di concepire l’idea di un romanzo, dovendo pensare di tre mesi in tre mesi – il tempo della durata di un contratto di lavoro – e di dover, almeno all’inizio, lavorare alla macchina da scrivere solo nel fine settimana, ritirandosi nel garage di casa.

Beh, per un qualche insondabile motivo, tutta questa congerie di fattori negativi ha prodotto, a mio modestissimo avviso, la migliore scrittura al Mondo. God bless the American Literature!

Qualche tempo fa, poi, Mark SaFranko, un autore statunitense con cui sono entrato in contatto alcuni anni addietro e che ho avuto il piacere di leggere e intervistare, mi ha inviato una sua raccolta di racconti, Loners (Murder Slim Press), ancora inedita in Italia. Ho divorato il primo racconto, The Man in Unit 24, e sono rimasto folgorato. Tant’è che gli ho mandato subito un messaggio, in english of course: “Almighty fuck, The Man in Unit 24 is one of the best short story I’ve ever read. It’s a masterpiece, man” (“Cazzo santo, L’uomo nella stanza 24 è uno dei racconti migliori che abbia mai letto. Un capolavoro, fratello”). Infine, una cosa tira l’altra, lui mi ha ringraziato – “you made my day” (“mi hai svoltato la giornata”) – e così gli ho chiesto di poterlo tradurre e usare quale regalo di Natale per i lettori di “Il Detonatore”.

Da quel momento, io e la mia amica Clara Carluccio (anche lei amante, come me, della lingua in questione), in qualche pomeriggio, abbiamo trasposto in italiano il racconto. Leggetelo. C’è qualcosa di magico in questa storia di SaFranko, qualcosa di molto americano. Sembra quasi di sentire le note di una canzone di Tom Waits, come Invitation to the Blues. Vedrete, troverete tutti gli ingredienti di una storia a stelle e a strisce: il non luogo – il motel –, due solitudini che si incontrano. Versatevi un whiskey – obviously, on the rocks – e dateci dentro, it’s on the house – offre la casa.

Matteo Fais

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INTRODUCTION

MARK SAFRANKO – THE AMERICAN FRIEND, WRITER 

Americans, in literature, mean short stories to me – even when they write novels -, i.e. brevity. No superfluous turns of phrase to steal a few extra pages, but a language as blunt and very direct as an Iron Mike’s punch – Mike Tyson -, totally antithetical to that of the Italians and the French so accustomed to self-referential, and above all self-satisfied, masturbation in prose.

From Bukowski to Fante, via Dubus and Carver – and how can we forget the great Holly Goddard Jones! -, overseas writers are undoubtedly better at the faster form of the short story. Besides, they have never known forward thinking, having always led a precarious existence, in which there were very few certainties – certainly not the employment one.

Bukowski, in fact, didn’t write a novel before the age of fifty, if I remember correctly, being too busy making a living by working at the post office. And the poor Carver said he could never afford to conceive the idea of a novel, having to think from three months to three months – the length of time of an employment contract – and being able, at least in the beginning, to work at the typewriter only at weekends, retiring to the garage at home.

Well, for some unfathomable reason, this whole congeries of negative factors produced, in my very humble opinion, the best writing in the world. God bless the American Literature!

Some time ago, then, Mark SaFranko, an American author with whom I came into contact a few years ago and whom I had the pleasure of reading and interviewing, sent me a collection of his tales, Loners (Murder Slim Press), still unreleased in Italy. I devoured the first story, The Man in Unit 24, and was blown away. So much so that I immediately sent him a message, in english of course: “Almighty fuck, The Man in Unit 24 is one of the best short stories I’ve ever read. It’s a masterpiece, man”. Finally, one thing led to another, he thanked me – ‘You made my day’ – and so I asked him if I could translate it and use it as a Christmas present for the readers of “Il Detonatore”.

Since then, my friend Clara Carluccio, also an English language lover like me, and I translated it into italian in a few afternoons. Read it. There is something magical about this novella by SaFranko, something very american. You almost seem to hear the notes of a Tom Waits’ song, like Invitation to the Blues. You will see, you will find all the ingredients of a star-studded story: the non-place – the motel -, two lonelinesses meeting. Pour yourself a whiskey – obviously, on the rocks – and get into it, it’s on the house.

Matteo Fais

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L’UOMO NELLA STANZA 24

(di Mark SaFranko – trad. it di Matteo Fais e Clara Carluccio)

Uno sguardo sfuggente, nulla più.

Il volto di un uomo, frontale, seguito dal suo profilo, così simile a quello di un rapace. Sullo sfondo, una lavagna con una lunga serie di lettere e numeri non perfettamente allineati e il nome di una prigione della contea.

Amy Whitehall stava in fila al negozio di ferramenta di Lunenberg, per acquistare una confezione di chiodi, quando passarono quelle immagini così fredde, trasmesse sullo schermo di un piccolo televisore a colori, dietro la cassa, durante uno di quei tipici programmi americani.

Le venne da pensare, eppure c’è una qualche somiglianza. Beh, non poteva essere niente di più. Capita che le persone si assomiglino. E chiunque ricorda almeno vagamente qualcun altro. È uno dei tanti misteri del mondo.

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Mark SaFranko

L’uomo pernottava ormai al numero 24 da almeno due settimane e mezzo, diciassette giorni per l’esattezza. La sua stanza guardava a est, verso quella aspra costa distante forse un miglio o poco più, e verso il mare aperto e selvaggio, dove tutti i viaggi iniziano e trovano la loro fine.

Aveva pagato in anticipo. Cosa decisamente insolita. Si era firmato come Wallace Thorne. Città natale, Vancouver. La stanza era stata affittata senza lasciar detto quando se ne sarebbe andato.

Questo è tutto quel che stava scritto sul suo documento di registrazione. C’era anche un numero di telefono. Che ci faceva lui, lì?, chiese lei, come era solita con tutti i suoi ospiti, più per il gusto di fare conversazione che con l’intento di essere indiscreta.

“Faccio un giro”, ecco cosa rispose. “Una vacanza. Se questo buco di provincia si dovesse rivelare gradevole, chi lo sa, potrei pure decidere di restarci per un po’”. Stava cercando un nuovo posto dove stare.

Notò i suoi occhi – cerchi blu-cielo, come fiammate di gas, segnati da piccole chiazze, simili a punture di spillo, di colore grigio e oro – una combinazione davvero unica, disse a sé stessa, dopo che lui ebbe preso la card d’ingresso. Mentre si allontanava, non poté fare a meno di notare la sua magrezza, che dava a intendere potesse aver bisogno di qualche pasto sostanzioso, o forse… forse dipendeva da altro.

I primi giorni, sembrava indossare sempre gli stessi vestiti – jeans stropicciati e un bomber sbiadito color ruggine -, quando le capitava di trovarselo davanti che andava e tornava dalla sua macchina, un anonimo e vecchio modello di Chevrolet con un’ammaccatura sul parafango posteriore, finché non le accadde più di incontrarlo con una certa regolarità.

Non che lei avesse niente da ridire rispetto al suo essere lì. Negli ultimi anni, c’erano state sempre meno presenze fuori stagione. Il calo di visite, lo sapeva, doveva avere a che fare con la recente mancanza di neve in zona. Quando ce n’era poca, gli sciatori non si presentavano. Qualcosa di simile, a quel che aveva sentito, capitava anche per la pesca. Ma c’era dell’altro, nel suo caso. Aveva in un certo senso abbandonato il motel a sé stesso. Era proprio trascurato. Il posto quasi pregava per una mano di vernice, dentro e fuori, oramai da lungo tempo, ma lei non aveva mosso un dito. Anche la sottile insegna di metallo all’ingresso, con inciso “The Osprey’s Nest”, non era più al suo posto ed era sempre più intaccata da macchie verdastre che emergevano qua e là come eruzioni cutanee sul muso della lepre. Le stanze, all’interno, non versavano in condizioni migliori. La climatizzazione era nella più rosea delle ipotesi imprevedibile. La metà dei telecomandi dei televisori non funzionava più. Gli asciugamani erano talmente lisi da risultare sottili come carta. I locali stessi avevano assunto una patina di oscura polverosità, di morte che avanza. Amy Whitehall, che era stata a sua volta una viaggiatrice, certo non sarebbe stata entusiasta di sborsare più di 95 dollari per passare la notte in un posto simile.

Negli ultimi giorni, sembrava che la macchina di lui non fosse più stata spostata. Che cosa faceva da solo dentro la stanza tutto il tempo? Le capitò di pensare che se ne fosse andato, dopo che qualcuno era passato a prenderlo ma, non avendo visto alcun movimento, non poteva esserne sicura. Qualunque cosa fosse, certo lei non sarebbe andata a indagare. Le stava bene così: aver avuto i suoi soldi, senza doversi curare minimamente degli intenti di Wallace Thorne. 

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Uno dei pochi romanzi di Mark SaFranko tradotti in italiano: Odiando Olivia, Whitefly Press.

La sera del quarto giorno, suonò il campanello sul tavolo della reception. Quando lei uscì dal suo piccolo appartamento sul retro, lui fissava l’immagine del parcheggio, fuori dalla finestra, con le mani affondate nelle tasche dei jeans.

“Ehi”, le disse con quella voce raschiata di chi è afflitto da una insopprimibile timidezza.

Gli sorrise. I loro occhi si incontrarono un’altra volta e rimasero a fissarsi per un tempo che a lei parve in qualche modo significativo, finché lui non li distolse per rivolgerli alla superficie screpolata del bancone.

“Avrei bisogno di qualche altro asciugamano”, sussurrò a mezza voce, quasi con l’inflessione di chi stesse ponendo una domanda.

“Certamente”, rispose lei con segreto imbarazzo, e si girò immediatamente verso l’armadietto dietro la cassa, frugando in cerca di quelli più spessi e consistenti.

“Se dovessi aver bisogno di qualcosa, basta una chiamata e io – sì, insomma, qualcuno provvederà a farti avere quel che ti serve”.

“Come ti chiami?”, chiese Wallace Thorne. “In caso servisse”.

“Amy Whitehall. Semplicemente Amy.”

Si mosse verso la porta, con le braccia che cercavano di bilanciare la pila di asciugamani quasi si fosse trattato di un vassoio bollente. “Caspita, i fiori di plastica mi avevano quasi ingannato”, sorrise da dietro le spalle. “Da prima, avevo pensato fossero veri”.

Amy aveva sostituito i gerani sulla balaustra, tra i due piani del motel, tanto di quel tempo prima da aver dimenticato quando c’erano ancora quelli veri. Tutto ciò che riusciva a ricordare è che non doversene più occupare era stata un’incombenza in meno, dopo che suo marito se n’era andato – scomparso – e che nessuno, eccetto Wallace Thorne, sembrava averlo mai notato o essersi preoccupato del fatto che i petali e i gambi che adornavano le loro stanze e il corridoio non fossero esattamente autentici.

La notte di primavera in cui era uscito per comprare un pacco da sei di birre, senza preoccuparsi di tornare, sembrava ormai appartenere a un’altra vita. In principio, aveva fatto tutti i tentativi necessari per rintracciarlo, ma quando questi si erano rivelati fallimentari, e gli anni erano trascorsi senza che lui si rifacesse vivo, la fenditura nella sua mente, generata dalla quell’assenza, si era chiusa come la bocca di uno di quei fiori a cui un tempo era stata tanto affezionata.

In un certo qual modo, l’evento non l’aveva sorpresa completamente. Dopo tutto, era qualcosa che Lyle covava dentro sé fin dal principio. Ecco la verità. Quello era anche il motivo per cui erano finiti lì, a suo tempo. La sua spina nel fianco, dopo l’abbandono, era il dubbio se questo fosse stato pianificato o meno, come aveva fatto molti anni prima, fuggendo dal Missouri, quando vi era il rischio per quelli della sua età di essere chiamati alla guerra. “Se si dovesse avvicinare il mio numero della lotteria, ci diriggeremo a Nord”, aveva dichiarato quasi si trattasse di una sfida, durante una di quelle sere in cui sedevano nella macchina di lui, quella dannata e brutta VW Bug gialla, sul bordo del marciapiede di fronte a casa dei genitori di lei, alla periferia di St. Louis. E lei aveva detto “Sì, d’accordo, verrò con te, andremo dove vorrai”. E, per anni, in effetti, ebbero qualcosa come una vita decente lì su in Nova Scotia, almeno per quel che può esserlo l’esistenza di due espatriati, fino a quel fatidico giorno di un tardo Aprile, in cui lui indossò il suo cappotto, prese le chiavi del Land Rover e disse che sarebbe andato all’Old Barge Pub, sulla strada principale, per non fare più ritorno…

Ma lei aveva forse colto dei segni? Negli anni, frattanto, si era resa conto che di segni ve ne erano stati diversi – da quelle considerazioni che fece una sera a cena con gli amici – “Non sarebbe bello poter cambiare il proprio nome ed essere qualcun’altro per un anno o due?” -, alla sua improvvisa perdita di interesse per la manutenzione del parcheggio, per il quale si erano anche impantanati nelle sabbie mobili di un mutuo… ma ancora, d’altra parte, non vi erano indizi rilevanti, comparando tra di loro i fatti relativi alle diverse situazioni. Per esempio: non aveva forse voluto fare l’amore con lei la notte prima? E non aveva anche programmato una vacanza insieme, da lì a pochi giorni? In ultimo, restava sempre viva l’eventualità che Lyle fosse morto, ucciso quella stessa notte o poco dopo, che si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che, quando la vita gli era stata presa, fosse stato vittima di un trucco tanto ben orchestrato che nessuna traccia di lui potesse essere poi trovata. Qualsiasi fosse il caso, quando qualcuno vicino a te scompare, non puoi mai realmente dimenticare, mai abbandonarti fino in fondo al lutto, e lasciare alle spalle quella persona una volta per tutte. Tristemente, se si considerano tutte le possibilità, la loro somma non dà mai un risultato sensato. Soprattutto, per Amy: le ipotesi non conducevano da nessuna parte. Era questo uno dei tanti misteri della vita, come un sentiero che conduceva in nessun posto.

Ciò che le era chiaro, a ogni modo, era che qualcosa tra loro fosse mutata. Dopo diciannove anni insieme, non era più come al principio. C’era stata una naturale erosione della passione, successivamente al fuoco selvaggio della giovinezza. Tutta la questione della guerra – la sua opposizione di principio – aveva cessato di essere il motivo fondante. Si erano trasferiti lì, come aveva capito dopo un po’ che si trovavano in Canada, perché lui non voleva andare in Sud Asia. E lei sarebbe comunque rimasta con Lyle, ma…

Durante gli anni, la sua famiglia rimasta negli States aveva avuto i suoi morti, o si era spostata nei posti più disparati. Dopo le loro prime visite oltre il confine, a Nord, le comunicazioni erano state pian piano interrotte. Come un topo che si accanisca su un blocco di cemento, il tempo e la distanza, alla lunga, l’avevano avuta vinta sulla nostalgia di casa. Amy era divenuta a tutti gli effetti una cittadina del Nord. Alcune volte, la notte, si domandava, con sincera curiosità, se qualcuno tra coloro con cui condivideva un legame di sangue abitasse ancora in qualcuna di quelle strade vicino allo University Pank.

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Mark SaFranko

La quinta notte, di venerdì, si recò alla stanza 24 per la prima volta. “Hai bisogno di qualcosa?”, gli domandò, quando lui aprì la porta. “Perché non entri?”, questa fu la risposta. Ciò che la colpì immediatamente fu il modo ordinato in cui Wallace Thorne manteneva la sua stanza. Il letto era fatto con dovizia, gli asciugamani nel bagno perfettamente impilati (lo poté notare attraverso la porta lasciata aperta), senza che ci fosse una tazza vuota o un piatto sporco abbandonato in giro. Lo schermo del televisore lampeggiava silenzioso nell’angolo più lontano, vicino alla finestra che dava sul campo, il quale si allungava verso l’orizzonte grigio.

Cosa l’avesse spinta a varcare la soglia, non lo sapeva.

Sedette sulla sedia, alla piccola scrivania posata contro il muro, e fu come immaginare un’infinita serie di turisti senza volto che scrivevano lì le loro cartoline raffiguranti qualcuna delle spettacolari baie e insenature del posto.

L’ospite, in jeans e maglietta, piegato in avanti sul bordo del letto, aveva quel sorriso nervoso che lei aveva già notato in precedenza ripensando alle sue sottili labbra bianche.

Parlarono. Di niente in particolare – il tempo vicino al mare, della folla anemica della provincia in quel periodo dell’anno.

“Allora, che mi dici? Hai poi trovato quel che stavi cercando? Pensi di restare qui?”.

Schivò le sue innocue domande abilmente, lo notò, tenendosi sul vago, chiacchierando con fare sommesso ma senza pause, finché a lei non parve che qualcosa come un patto si fosse stabilito tra loro. Si alzò allora dalla sedia e gli augurò una buona continuazione di serata. Qualunque cosa fosse stata decisa tra i due era rimasta taciuta, mentre lei usciva. Lui era semplicemente un visitatore nella sua proprietà.

E no, non aveva bisogno di niente.

Mentre un’amara folata di vento simile al volo di un falco attraversava la pianura brulla, dietro lo Osprey’s Nest, quella notte, Amy Whitehall giaceva nel suo letto, rimuginando su ciò che la sua vita era diventata. Non che vi avesse mai scorto chissà quale grande prospettiva (durante il college aveva più che altro girovagato e Lyle era stato il suo unico, vero, grande interesse), ma gli anni della maturità si erano oramai dissolti entro una nebulosa dí insignificanza, tra il lavoro duro e privo di senso, le necessità quotidiane e vaghe delusioni. Un esule, ecco cos’era, al cospetto del suo cinquantesimo anno – un numero impensabile – come posto di fronte alle fauci di un animale selvaggio. La città in cui era rimasta bloccata era una stazione verso il nulla, una finta oasi ai margini del mondo dove l’umanità comincia a diradarsi. Le figure spettrali che occasionalmente suonavano al vecchio teatro dell’opera in città –  come il leggendario batterista di un gruppo di rock and roll di trent’anni prima, per esempio – erano scherzi dimenticati da tempo, incubi ormai esauritisi. I suoi stessi sogni, un tempo felici e voluttuosi, erano divenuti violenti e sanguinosi come trame di un film dell’orrore di cattivo gusto, la roba che vedeva da bambina in qualche cinema di quei tranquilli sobborghi americani.

Gettando via la pesante trapunta, scivolò dal materasso e si tolse con veemenza la camicia da notte. Nello specchio a figura intera attaccato alla porta della sua camera da letto, colse l’immagine di quel corpo di mezza età e decise che andava ancora bene, come una pera a metà tra il duro e il marcescente. I seni, in particolare, furono una rivelazione. Nonostante la gravità li avesse resi leggermente cascanti, conservavano ancora una certa elasticità che ne faceva emergere i capezzoli rosa, spingendoli verso l’alto, come quelli di una donna più giovane.

Lei sapeva il perché. Non aveva mai dato alla luce dei bambini, mai dovuto allattare. Del resto, Lyle era fuggito via – almeno questa era la sua convinzione – proprio nell’ultimo periodo della sua fertilità e nessun uomo si era presentato in tempo per evitarle di abbandonarsi a quella sterilità. A suo tempo, ciò non era stato un grande problema. Una cosa vale l’altra, quando la vita si riduce a tenere la testa fuori dall’acqua per non annegare. Una volta ogni tanto c’erano stati degli avvicinamenti con qualcuno di quei maschi randagi, ma nessuno aveva significato granché per lei, e il vento crudele della sorte e del tempo avevano ormai inaridito il suo mondo come quei cardi che si abbarbicavano sul graticolato lungo lo stretto giardino, sul retro del Osprey’s Nest.

Quando si fu ridistesa nel letto, si toccò con la mano su quella peluria umida, fino a venire, come aveva già fatto tante altre notti. La differenza era che, in quel momento, l’oggetto delle sue fantasie era Wallace Thorne.

Mark Safranko
Mark Safranko

Mentre si trovava di fronte alla porta della stanza 24, avrebbe potuto giurare che lui era ancora lì, seduto nella stessa posizione in cui si trovava la notte precedente. Cosa stava aspettando? Sapeva che lei sarebbe arrivata? Quella sera, gli portò un panino al pollo, avvolto nel cellophane, e una bottiglia di birra canadese. Invece di parlare, si limitò a un cenno del capo, quando lei entrò nella stanza, oscurando quei tardi raggi, di un freddo sole primaverile, provenienti da occidente. Lui si alzò, andò verso la porta per chiuderla, e fece sbattere la serratura come si mette un punto in conclusione di una frase.

In principio, non aveva idea di cosa avrebbe fatto. Per un istante, le balenò in mente che avrebbe potuto strangolarla – ucciderla. Invece, si limitò a prenderla con decisione, ma senza durezza, spingendola verso il letto. Incredibile come due esseri umani che non si conoscono possano comprendere quando qualcosa sta per accadere tra loro, senza neppure scambiarsi una parola. Lo poteva sentire che la annusava, proprio come un animale fa con l’altro, godendo dell’odore di shampoo alle bacche sui suoi lunghi capelli castani. Invece di restare passiva, gli fece scorrere via la maglia lungo la testa e premette la punta delle sue lunghe dita contro la pelle tatuata, sentendo lo sporgere quasi infantile delle sue costole, studiando il disegno della piccola farfalla blu acciaio che adornava l’interno del pettorale sinistro. Prima ancora che se ne potesse rendere conto, lui le era dentro…

Non furono proferite parole, solo versi animali. In passato, con altri uomini, compreso Lyle, ci si era sempre scambiati qualcosa, frasi che a quel tempo sembravano necessarie come ornamento di quegli attimi, che però avevano l’effetto di far venire meno una certa atmosfera anonima e un senso del pericolo affilato che, come realizzò in quel momento, era ciò che aveva sempre desiderato – o forse, pensò mentre lui le stava sopra e spingeva, era quello l’unico modo in cui poteva realmente sentire qualcosa, passando per un silenzio bestiale?

Come una ricorrente e indelebile immagine di un sogno particolarmente intenso, vide quella faccia proprio come le era apparsa sullo schermo della TV al negozio di ferramenta.

Non poteva essere – era un’assoluta pazzia.

Quell’uomo – qualunque fosse il suo nome – era ricercato per una serie di feroci aggressioni di carattere sessuale a danno di donne e ragazze; aveva raccolto quell’informazione dalla voce del mezzobusto che parlava durante il notiziario, mentre attendeva per pagare i chiodi.

No. Era ridicola come cosa. Non poteva essere. Non voleva neppure pensarci.

Quel che fu detto alla fine dell’atto era sconclusionato, incerto, come il rumore dell’ingranaggio di un macchinario scassato.

“Bene…”

“Sì.”

“È stato bello…”

Quei secondi morti che seguirono furono imbarazzanti, ma a meno di qualcosa di imprevisto, lei sarebbe tornata la notte successiva, lo sapeva già.

Poi, come all’improvviso, le venne la paura che lui se ne potesse andare.

Dio, fai che resti. Se così non fosse…

Una luce sporca e scura passò attraverso le fenditure di quelle tende logore e ammuffite. Siamo amanti? È questo ciò che chiamano amore? È passato così tanto tempo che a stento lo ricordo. Si concesse una risata aperta, immersa com’era in quel momento di benessere passeggero.

No. Non è niente. È ciò che è.

L’uomo rotolò via e riprese in mano il panino rimasto sul comodino. Lei giaceva lì a contemplare lo spettro dei colori del giorno che svaniva, mentre lo sentiva masticare, per poi udire il suono del tappo della bottiglia di birra che saltava.

Non voleva sapere più niente di lui. La precedente curiosità era ormai morta. Se tutto avesse potuto protrarsi in quel silenzio, l’avrebbe accettato di buon grado, con sollievo. Non ci sarebbero state domande sui futuri pagamenti, sul domani, su ciò che Wallace Thorne pensasse, sentisse, o desiderasse. In ultimo, niente di tutto ciò era importante.

Lui era fermo, nudo di fronte al televisore, con il membro abbandonato come un serpente morto, quando lei finì di vestirsi e si diresse verso la porta.

“Ehi, grazie per il panino” disse con voce serena. “Delle volte, stando qui, mi prende una certa fame”.

Stava quasi per domandargli come mai non uscisse per comprarsi qualcosa, ma poi ci ripensò e riprese la sua strada.

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Mark SaFranko

La pittoresca cittadina di Lunenburg è abbastanza grande – circa tremila persone o giù di lì – perché alcuni dei suoi abitanti non risultino noti a chiunque sia del posto; malgrado ciò, se si risiede lì o in zona, come Amy Whitehall, è impossibile che altre persone non vengano a conoscenza di alcuni fatti riguardanti la tua vita.

Fu il giorno successivo che Amy incappò in Hannah Choyce, fuori dall’ingresso del supermarket. Lei usciva, l’altra stava per entrare.

“Come vanno gli affari ultimamente?”, chiese Hannah, con quelle vocali allungate tipiche dei canadesi, alle quali Amy non era mai riuscita ad abituarsi.

“A rilento. Ma tiro avanti”, disse lei in tono evasivo, con una risposta che Hannah già si aspettava, dato il lungo inverno che stavano attraversando.

“Ho sentito che c’è una macchina parcheggiata da una settimana, lì di fronte a te”.

“Oh… sì, credo di sì”, rispose lei d’istinto, prima ancora di aver pensato realmente alla domanda posta da Hannah. “E tu come lo sai?”.

“La ragazza che lavora anche da te, ne parlava l’altra notte”. 

Hannah Choyce era la proprietaria della pizzeria che guardava sulla baia, e Victoria Knof, la colf che lavorava part-time da Amy, serviva lì ai tavoli diverse notti a settimana. La notizia di un ospite che restasse più del solito sarebbe stata impossibile da tenere nascosta, Amy se ne rese mestamente conto in quel momento.

“Oh, sì, quello… È venuto per far visita ad alcuni parenti fuori Halifax, o qualcosa di simile”, disse senza pensarci.

“Ah, ecco”, Hannah sorrise. “Beh, non devono essere esattamente un gruppo affiatato direi, no?”.

“E chi lo sa… Ci avrò parlato una volta di sfuggita. Magari ho capito male. Non è che ci abbia prestato granché attenzione”.

Amy era sempre poco convincente quando mentiva. Poteva sentire una sottile pellicola di sudore freddo formarsi sopra il labbro superiore.

“Beh, io dovrei andare…”.

“Se a quel tizio dovesse venire voglia di pizza, ricordati di mandarlo dai migliori in città”.

“Assolutamente”, rispose Amy cercando di chiamare a raccolta tutta la sua poca convinzione. “Lo sai che lo faccio sempre”.

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Mark SaFranko

Da quel momento, cominciò a recarsi nella stanza 24 ogni giorno, ma solo quando un velo di oscurità era ormai disceso sull’insenatura che abbracciava dal vivaio delle aragoste al villaggio di pescatori, intanto che i resti del vento artico si andavano spegnendo, una volta discesi dall’altopiano di Cape Breton, insinuando il freddo nelle ossa come uno spillo ghiacciato.

“Chi sei?”, gli chiese, quando si furono sdraiati l’uno al fianco all’altra, dopo la quarta o quinta volta.

“Che vuoi dire?” rispose l’uomo, i cui occhi e sopracciglia erano coperti dall’avambraccio sottile, totalmente privo di peluria.

“L’hai capito… Qual è il tuo vero nome?”.

Si lasciò sfuggire un sospiro. “Perché mi fai una domanda del genere?”. 

“Perché… Voglio dire, non hai messo piede fuori da questa stanza. Non che faccia differenza. Non voglio niente da te…”.

Ed era vero. Semplicemente, l’intimità sembrava un invito ad abbandonarsi a certe confidenze.

Wallace Thorne – o quel che era -, sorrise.

“Dipende tutto dai fiori di plastica che ci sono in questo posto, come ti avevo già detto. Mi piacciono troppo”. 

“No, dai, sul serio”.

Si tirò su col gomito. “Vuoi che me ne vada? È questo che stai cercando di dire?”.

“No, Dio, no. Avevo semplicemente l’idea che forse…”

Non esternò fino in fondo il suo pensiero. In realtà, non sapeva neanche lei che cosa dire, né cosa pensare esattamente. Sentiva solo di non voler continuare senza di lui.

“Meglio che sia chiara, quando parli con me”, disse lui.

“Lo sono”.

“Non mi importa, comunque. Posso andare e venire come mi pare, quando mi pare. Non ti ho fatto niente. Se voglio restare qui seduto per l’eternità, fino alla morte, che differenza ti fa? Se ho i soldi per pagare, che problemi ci sono?”. 

“Non ho mica detto che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che hai fatto”.

“Allora, cosa vuoi da me? Cosa?”.

Non aveva una risposta a questa domanda. E così cedettero nuovamente al silenzio, un silenzio profondo e senza fine, nero come la notte canadese che li avvolgeva.

Ma la settimana successiva non poté più resistere a quel terribile impulso di sapere che la tormentava nell’anima. Saltò sulla Jeep e guidò di fretta verso la città, andando a parcheggiare di fronte alla biblioteca. In principio, non aveva idea di cosa fare. Non passava più lì dai tempi di Lyle, quando aveva preso in prestito alcuni romanzi per superare la noia mortale di certe notti lunghe e ferocemente fredde. Davvero, da dove cominciare? Avvicinarsi all’uomo al bancone e chiedere informazioni su un ricercato? Su uno stupratore seriale? Chiaramente, non poteva essere quella la via, sarebbe stato assurdo.

Vagò tra gli scaffali salutando timidamente, con un cenno del capo, tutti quelli che incontrava. Quando una ragazzina le parlò, dicendole qualcosa che le risultò incomprensibile sul momento, quasi le prese un colpo. Giunta all’espositore dei giornali, ne prese un paio e sfogliò le pagine, ma senza grande convinzione.  Titoli infiniti, storie, pubblicità, fotografie. Ogni tanto, prestò particolare attenzione a qualche articolo. Dopo le edizioni di New York, passò a quelle di Toronto, poi a quelle di Montreal, per andare infine a quelle di Ottawa. Era un qualcosa di impossibile. Cosa sperava di scoprire in quel modo? Facendo così, sarebbe rimasta lì in eterno! E se l’uomo nella stanza 24 era colpevole di determinati crimini, chi poteva sapere dove fossero stati commessi? Se li avesse compiuti da tutt’altra parte? In quel caso, non si sarebbe certo trovata notizia in quel piccolo pezzo di mondo, in cui la popolazione apprendeva di certi eventi solo giorni, se non settimane, dopo, sempre che mai ne venisse a conoscenza.

E se tutti questi timori fossero stati solo frutto della sua immaginazione? Non c’era probabilmente niente… Niente più delle colpevoli farneticazioni di una donna di mezz’età, sola, che si era fatta certe fantasie unicamente per buttarsi tra le braccia di un estraneo di passaggio.

Da qualche parte dentro di sé, realizzò che non voleva realmente sapere la verità riguardo all’uomo della stanza 24.

Cionondimeno, procedette verso il piano di sotto, lì dove si trovavano le riviste. Ne sfogliò il maggior numero possibile, in particolare quelle riguardanti la cronaca americana, ma il risultato fu il medesimo – da quella massa di caratteri stampati e colori, non ricavò altro che l’opprimente senso di quanto grande, vasto e incontrollabile fosse divenuto il mondo in sua assenza.

Prima che se ne potesse capacitare, la voce forte dell’altoparlante informò che da lì a quindici minuti ci sarebbe stata la chiusura, pertanto chi aveva dei testi da chiedere in prestito era pregato di portarli all’ingresso…

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Mark SaFranko

La mattina successiva, uscì per andare nel retro del giardino a spargere un po’ di briciole di pane per gli uccelli. La macchina di Wallace Thorne era sparita. Con il cuore che andava ormai per conto suo, passò oltre il cancello e andò fino alla stanza 24, dal cui pomello penzolava il cartello NON DISTURBARE.  Avevano passato la prima parte della notte precedente insieme, come quella prima e la precedente ancora, ma lui non aveva mai detto di doversene andare. Nonostante ciò, era stata una serata fuori dal comune: lui aveva insistito per tenere le luci accese e legarla mani e piedi al letto, con quei vecchi asciugamani, cosa a cui in principio si era dimostrata riluttante ad abbandonarsi, ma a cui aveva acconsentito al crescere della sua impazienza.

“Ne hai bisogno tanto quanto ne ho bisogno io”, aveva insistito lui in un misto di furore e gentilezza, con quell’accento elusivo ed esasperante di cui lei ogni volta non riusciva a cogliere il senso.

“No, non ne ho bisogno”.

“Non saprai mai di cosa hai bisogno, puttana, prima che te lo mostri io…”. 

Come la prima volta, fu quasi travolta da quella sorta di feroce panico che devono sperimentare le persone quando stanno per perdere la propria vita. Ma anche allora non accadde niente di strano, semplicemente si ritrovò travolta in quel bizzarro vortice di un’esperienza nella quale il dolore è componente essenziale di un piacere cieco. Il tutto la lasciò frastornata come il sopravvissuto di una tragica scalata sul ripido sentiero di una montagna.

Alla fine, lui la congedò mostrando la stessa indifferenza manifestata le notti precedenti.

“Perché?”, chiese lei.

Non rispose, non fece nulla a parte scuotere la testa.

Era stata fortunata o no? Quella bizzarra pratica che erano riusciti a mettere in atto tanto bene era forse il punto di partenza di ciò che avrebbe rianimato le loro esistenze?

A ogni modo, quella mattina, Wallace Thorne non si trovava da nessuna parte. Una sola domanda la tormentava: era, dunque, tutto finito?

Tremava dall’ansia. Irritazione e sollievo le risalirono insieme dallo stomaco, mentre camminava. Poteva sentire l’aspirapolvere in funzione al piano superiore, dove Victoria stava pulendo le stanze che, per quel fine settimana, erano state, si potrebbe dire, requisite da un rumoroso gruppo di  escursionisti. Si affrettò verso l’ufficio, prese il passepartout, si mise un parka sopra le spalle e attraversò in fretta il vialetto, fermandosi solo per una veloce occhiata da una parte e dall’altra del parcheggio, prima di bussare piano alla porta malandata della stanza di Wallace Thorne.

Nessuna risposta. Fece scorrere allora il pass nella serratura e la sentì scattare.

Il cuore le batteva forte contro le costole, mentre cercava di comprendere il significato di quella stanza buia. Poteva sentire il suo stesso profumo alleggiare ancora dopo tante ore e quello di lui, una combinazione unica e molto mascolina di detergente classico e sudore. Negli anni era divenuta esperta nel riuscire a capire quando un ospite aveva oramai lasciato una stanza, ma quella mattina non riuscì a farsi un’idea. Ciò che le suggeriva quando una persona aveva liberato il posto, negli ultimi venti-trenta minuti, era come una sorta di calda risacca, ma quella stanza conservava la frescura di una tana, come se una bestia in letargo l’avesse abbandonata da qualche tempo per andare a procurarsi il cibo.

Se era alla ricerca di qualche indizio – uno qualsiasi -, o di una qualche evidenza, era destinata a rimanere delusa. Nel bagno non c’era niente, fatta eccezione per un dentifricio Colgate Tartar Control, un rasoio di plastica a doppia lama, e una confezione di schiuma da barba.  Gli asciugamani – quelli con cui l’aveva legata la notte prima – erano stati appesi ordinatamente. L’armadietto era vuoto. Gli unici vestiti che Wallace Thorne sembrava possedere, a quanto pareva, dovevano essere quelli che indossava, a meno che non avesse altro dentro la sua macchina.

Sulla scrivania, stava una lettera. Prima di prenderla, controllò attentamente la posizione. Nell’angolo in alto a sinistra era stampato l’indirizzo di una società assicurativa con base a Springfield, Illinois, USA. Avvicinò la busta agli occhi. Era stata spedita a una certa Mildred Covington, al numero 17 di Ocean Street, Portland, Maine, ed era stata aperta con le dita. Usando il pollice e l’indice, Amy la aprì, ma senza trovarvi niente al suo interno. Sul retro, vergati a matita con una calligrafia grezza, vi erano dei calcoli:

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Soldi, pensò lei in modo vago. Su cos’altro le persone fanno sottrazioni e addizioni?

Nell’angolo in basso a destra stavano scritte queste parole: Terry, Houston.

Terry. Houston… Chiaramente, era il nome di qualcuno. Che facesse riferimento a un appuntamento in quella lontana città? A un evento da ricordare? Rovistò velocemente nei cassetti, ma tutto ciò che ne ricavò furono due cartoline dai bordi ingialliti con le foto della cava di Ovens e, nel comodino, l’ultimo appiglio per i disperati, la Bibbia distribuita dai Gedeoni.

Fu a quel punto che sentì la porta di una macchina sbattere e le sue orecchie si drizzarono all’istante. Si guardò intorno velocemente, assicurandosi che tutto fosse al suo posto. Uscendo, si tirò dietro la porta. Tornò indietro in tutta fretta, giusto in tempo per accogliere Wallace Thorne che rientrava, con una busta sottobraccio, dirigendosi verso la stanza 24.

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Mark SaFranko, Loners, Murder Slim Press. Il libro d cui è tratto il racconto che state leggendo.

Amy aveva sempre avuto la sensazione che Hannah Choyce nutrisse nei suoi confronti un malcelato risentimento, essendo che lei non aveva da lavorare altrettanto duramente per guadagnarsi la pagnotta, malgrado fosse proprio Hannah ad avere il marito fedele, un mucchio di bambini e a fare lunghe vacanze in Florida, a Gennaio, Febbraio e Marzo. Amy non aveva idea da dove provenisse tanta animosità considerato che chiunque portasse avanti un motel o lavorasse nella ristorazione sapeva che l’altro non conduceva esattamente un’esistenza facile. Cionondimeno, sembrava che Hannah non potesse mai fare a meno di immischiarsi negli affari di Amy ogni volta che si incontravano.

“Hai scoperto qualcos’altro riguardo al tuo ospite?”, chiese Hannah fuori dalla pasticceria di Lunenberg, come se niente fosse, mentre lei saliva sulla sua 4×4, in una luminosa mattinata di fine mese.

Arrossendo, Amy scosse la testa. “Temo di no…”.  Presa alla sprovvista, non le venne neppure in mente di chiedere perché la sua vicina stesse tenendo d’occhio gli spostamenti di Wallace Thorne.

“Non trovi la cosa un po’ strana?

“Non ne ho idea. Il mio principio è ‘vivi e lascia vivere’. Finché lui si fa gli affari suoi, io mi faccio i miei”, disse lei cercando di sembrare il più obiettiva possibile, ma sottintendendo un chiaro messaggio per l’altra con la sua affermazione.

“Beh, non capita tutti i giorni qualcosa di simile da queste parti”.

“Capita cosa?”, chiese Amy.

“Che un tizio venga nel tuo motel e si chiuda dentro una stanza. Victoria, in ogni caso, pensa che sia singolare come situazione”.

“Ah, lei pensa questo?”, rispose Amy, quando ciò che avrebbe voluto dire ad Hannah Choyce è che questi non erano affari di cui doveva occuparsi la sua cameriera.

“Suppongo, a questo punto, di dover indagare in merito”, aggiunse.

Il sorriso di Hannah le parve in un qualche indefinibile modo scontroso.

“Sì, forse dovresti”.

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Mark SaFranko

Amy intercettò Victoria mentre questa stava mettendo via l’aspirapolvere, nel ripostiglio che separava l’ufficio dalle stanze del motel.

La cameriera non era mai stata prima nell’appartamento di Amy, e quest’ultima osservò gli occhi di lei guizzare nervosamente intorno a quegli spazi, mentre si scioglieva la coda dei capelli che aveva tenuto legati fin dal mattino quando era arrivata. Era una creatura priva di attrattiva, considerò Amy, grassa e sgraziata, non particolarmente intelligente – come molte donne da quelle parti. Se fosse rimasta lì a Lunenberg, la sua vita sarebbe stata segnata unicamente dal lavoro, la noia e il freddo bestiale. E a lei non era mai parso di scorgere la minima possibilità che il destino di Victoria potesse andare oltre quella dimensione ordinaria.

“Ho fatto qualcosa che non quadra, Signora Whitehall?

“No, Victoria… Semplicemente… Mi domandavo se avessi notato qualcosa riguardo al Signor Thorne, lì al numero 24”.

La ragazza guardava davanti a sé, attraverso le grosse lenti dei suoi occhiali, e in principio Amy ebbe il dubbio che non avesse sentito la domanda.

“Oh, beh, è davvero strano”, rispose infine, come se stesse esternando a una compagna di scuola il suo giudizio su un ragazzo.

Amy cercò di assumere un espressione imperturbabile. “Perché dici questo?”.

“In primo luogo, non mi lascia entrare a fare le pulizie. Quando gli ho detto che sarebbe stato meglio lasciarmi fare, si è arrabbiato. Perché mai uno si dovrebbe arrabbiare all’idea che gli puliscano la stanza?”.

“Sì, c’è…”.

“C’è qualcosa in lui. È inquietante. Lo si vede dagli occhi. E questo fatto che non voglia uscire da lì. Uhm”. Victoria rabbrividì. “Lo farà forse la notte?”.

Amy sbattè le palpebre. “Mah… Non so. Non è che stia esattamente dietro ai suoi movimenti”.

“Perché mi chiede questo?”, domandò la ragazza, con l’atteggiamento di chi cerca di prendere tempo, pensò Amy.

“Ma, niente… Ero semplicemente curiosa, tutto qui. Voglio dire, ha pagato e…”.

“Lei non è la sola a essere interessata alla faccenda, sa”.

“Che intendi dire?”, chiese Amy con esitazione.

“Al ristorante, la Signora Choyce mi domanda sempre se sia andato via”.

“Ma non mi dire! E, secondo te, perché è tanto interessata?”.

“La Signora Choyce è sempre interessata a lei. Suppongo sia per ciò che le è successo, sa, con suo marito e il resto”.

“Dunque, tu sai di mio marito?”.

“Beh, sì. Sa, pensavo – beh, sì, lo sa”.

“No, dimmi”.

“È sulla bocca di tutti”.

“Lo vedo…”.

“Magari, la Signora Choyce è semplicemente preoccupata per lei, data la presenza di quest’uomo all’Ospey’s Nest, tutto qui”.

“Preoccupata?”. 

Victoria scosse la testa.

“Signora Whitehall, non mi va di parlarne, davvero. Peraltro, ho il turno al ristorante tra un’ora e mezza, e devo tornare a casa per cambiarmi. Stanotte, sarà impegnativa. Il venerdì, sembra che tutti vogliano mangiare la pizza”.

Victoria si alzò. “Non ho una bella sensazione rispetto a quel tipo della stanza 24, se proprio vuole la verità”.

“Che significa?”. 

“Niente. È solo una sensazione. Ne ho tante, riguardo alle persone, a livello proprio fisico. Di solito, non sbaglio. Ci vediamo domani?”.

Amy Whitehall si sentiva un animale in trappola. Perché Victoria non aveva voluto parlare dell’uomo della stanza 24? La sola risposta possibile è che avesse sentito qualcosa al ristorante – dovevano aver discusso anche di lei. Ne sapeva abbastanza della natura umana da intuire di essere finiti sotto la lente di ingrandimento di alcuni membri della comunità di Lunenburg, e che anche la sua relazione notturna con l’ospite doveva essere divenuta materia di pubblica discussione, per quanto lei avesse cercato di mantenere la massima discrezione.

Quella notte Wallace Thorne sembrava meno interessato a lei del solito. Colse una qualche forma di agitazione nei suoi movimenti che non aveva notato in precedenza. Invece di spingerla immediatamente sul letto, camminava avanti e indietro per la stanza come se stesse cercando di trovare una soluzione a un qualche problema.

“Ehi, che c’è?”, chiese lei. “Mi dici cosa ti tormenta?”.

“Niente di cui tu debba essere messa al corrente”.

“Guarda che non posso parlarti, se non ti degni neppure di guardarmi in faccia”, protestò piano.

“Allora, non parlare”.

Malgrado il suo fare caparbio, Amy sapeva che era giunto il momento.

“Sei un ricercato… Ti ho visto alla televisione, la prima settimana che eri qui”.

Ci fu un lungo silenzio. Poi, Wallace Thorne rise.

“È questo ciò che pensi?”.

“Sì… Vorresti negarlo?”.

“Sei mai stata perduta?”. Si fermò e la fissò. “Hai presente quando prendi una svolta, pur sapendo che la strada è quella sbagliata, ma continui comunque a guidare? Sai perché, perché speri che prima o poi si riveli la via giusta… Ecco dove mi trovo. Io sono su quella strada”.

“Non mi stai rispondendo”.

Cosa vuoi che ti dica? Che sono John Smith da St. Louis, un commesso viaggiatore, che…”.

Il respiro le si fermò in gola.

“Che hai detto?”.

Wallace Thorne non capì. Scosse la testa.

“Cosa?”.

“St. Louis? Perché St. Louis?”. 

“Ma di che parli?”. 

“Di St. Louis. Tu hai parlato di St. Louis…”.

“E quindi? Ho detto St. Louis, ma avrei potuto dire Phoenix. Per me, non rappresenta molto più di un punto sulla mappa, come tanti altri… Che cos’è per te?”. 

Improvvisamente, prevalse la nostalgia. “Fu casa mia, molto tempo fa…”.

“Ma di che cazzo stai parlando?”.

Prima che potesse avvicinarsi, lei scappò via, lasciando la porta aperta dietro di sé, non perché non volesse essere toccata dall’uomo, ma perché in nessun caso avrebbe voluto farsi vedere mentre piangeva.

La telefonata giunse a tarda notte, mentre Amy Whitehall sedeva alla sua scrivania compilando gli assegni con i pagamenti per Victoria e le altre cameriere, per il servizio di lavanderia, per Sally e Martha, le donne che preparavano le colazioni e i pranzi all’Osprey’s Egg, il piccolo coffee shop che si trovava a sud della costruzione.

“Amy Whitehall? Parla Davis Slocumb…”

Per diversi secondi, l’idea che all’altro capo ci fosse la polizia fu un qualcosa che la mente di Amy rifiutò di accettare. L’unica volta che aveva parlato con loro, in vita sua, era stato quando Lyle era sparito.

“Abbiamo una segnalazione anonima su uno dei suoi ospiti, sembra si trattati di un ricercato per diversi reati compiuti negli States. Sto per spedire una macchina a fare un controllo. Nel mentre, voglio che lei resti calma, si tenga lontano da lui e ci dica cosa sa della persona in questione…”.

Mentre le sue labbra si muovevano, i suoi occhi fecero una veloce ricognizione della sua vita lì: animali impagliati pieni di tarli, qualche bizzarra incisione di artigiani locali, i suoi quadri mai veramente finiti di un mare in tempesta… Il dilemma la scuoteva nel profondo. Mentre dava diligentemente col contagocce le informazioni richieste dal poliziotto, cercando di depistarlo ogni volta che ne aveva occasione, stava al contempo giungendo a un’epifania: la sua vita, in assenza dell’uomo della stanza 24, sarebbe regredita a ciò che era già stata per tanti anni – un solido, impenetrabile blocco di granito canadese incastonato nel ghiaccio artico.

L’idea era improvvisamente opprimente e insopportabile.

Pensò al tempo, il suo passaggio, la sua quantità. Non poteva restarne molto.

Il poliziotto continuava a parlare. “Nel frattempo…”.

Quelle parole – “Nel frattempo” – indicavano che il processo era già iniziato. Slocumb la ringraziò, informandola che il suo uomo sarebbe arrivato presto, appena alcune carte fossero state pronte, in caso ci fosse stato da procedere con un arresto.

Dopo aver riagganciato, corse fuori dal suo appartamento e intorno alla costruzione, per giungere alla stanza 24. Non ottenendo risposta, bussò ancora, questa volta più forte.

“Sono io, Amy! Lasciami entrare! Devi assolutamente…!”.

La sigaretta che ciondolava dalle labbra di Wallace Thorne era quasi giunta al filtro. La maglietta era squarciata sotto il braccio sinistro, e c’era una macchia rosso scuro in basso, davanti, che sembrava ketchup. I capelli pettinati in piccole ciocche nere assottigliate, come la pelliccia di un bestia spellacchiata.

“Un poliziotto ha chiamato, chiedendo di te. Stanno arrivando – ti vogliono”.

Entrò di corsa, spingendolo di lato e chiuse la porta.

“Che gli hai detto?”.

“E cosa avrei dovuto dirgli? Non avevo niente da dire, a lui come a nessuno”.

Un’espressione di terrore da animale braccato smosse i suoi tratti.

“Che cazzo gli hai detto?”.

“Niente! Non avrei potuto dirgli niente. Lo sai”.

Lo sapeva, non poteva ignorarlo.

“Devo andarmene da qui…”

Afferrò la sua giacca, appesa al braccio di una sedia scassata che stava vicino alla finestra.

“Levati”, sbottò, andandole incontro. Ma lei non si sarebbe mai fatta da parte.

Si fermò, e si guardarono l’un l’altro per un tempo che sembrò una piccola eternità.

“Vengo con te”. Era la dichiarazione della vita per lei.

L’uomo sghignazzò con fare derisorio. “Ah, sì?… Perché? Che vuoi da me?”.

A un certo punto della vita, tutte le cose finiscono per venir meno nel loro significato. Ansia e paura, rabbia e pericolo, divengono meno di niente al cospetto della noia eterna e del vuoto.

E su questa convinzione che Amy Whitehall si fece salda, in quella sera di maggio del suo cinquantesimo anno.

“Quindi tu vorresti – vabbè, sta a te scegliere”, disse lui, superandola di lato. “Forse, potresti tornarmi utile. Prendi tutti i soldi che hai”.

Non che ci fosse molto in cassa. Provò a pensare se fosse il caso di ritornare in ufficio, spegnere le luci e chiudere tutto prima di scappare con Wallace Thorne.

Non lo fece. Quando attraversò lo spiazzo, trovo la porta della Chevrolet, a fianco al guidatore, aperta. Prima ancora che se ne potesse rendere conto, stavano correndo lungo l’autostrada, con il fuggitivo che lasciava cadere la cenere della sigaretta fuori dal finestrino aperto. Lì a distanza, tra gli alberi bassi, la colse la visione delle creste spumose sul mare agitato. E quando anche quella sparì dalla sua vista, pensò che per lei cominciava un nuovo esilio. 

E non sarebbe tornata per molto tempo.

GLI AUTORI

Mark SaFranko

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Matteo Fais

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MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.

Clara Carluccio

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