Il Detonatore

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“VIA VERSO LA NOTTE”, IL CANTO D’AMORE DI UN WHITMAN DELLA NARRATIVA AMERICANA (di Matteo Fais)

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Uno degli errori più comuni della critica – o meglio, del critico – è non leggere semplicemente un libro, ma proiettare su di esso la sua ideologia e visione del mondo, quasi che le pagine fossero lo schermo bianco di un proprio personalissimo cinema.

Tale prassi, con gli Americani, è ovviamente comunissima. Ci percepiamo come colonizzati, dunque odiamo i colonizzatori, gli Americani, e pensiamo che, di conseguenza, tutti coloro che tra quelli possiedono un minimo di intelligenza e sensibilità – gli scrittori, per esempio – detestino il proprio Paese.

Certo molti autori d’oltreoceano sono critici verso la propria Terra, ne riconoscono i difetti – la competizione esasperata all’interno, la tendenza guerrafondaia verso l’esterno –, ma alcuni, anche se a molti non sembrerà possibile, hanno visto e vedono tuttora grandi potenzialità negli USA. Un esempio su tutti? Il poeta Walt Whitman, la cui la spinta ottimistica, non certo ottusa, canta l’America, in luogo di maledirla.

Via verso la notte di Edward Allen (Mattioli 1885), per esempio, è un testo, che sembra essere stato letto proprio per quello che non è. Tutta la critica, anche quella più quotata dei grandi giornali, ha voluto scorgervi – con la consueta retorica – il romanzo dei losers, i perdenti della giungla metropolitana e capitalistica.

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Ambientato a New York, negli anni ’80 del secolo scorso, è la storia di Chuck Deckle, ex studente indisciplinato, ma autodidatta, che per vivere lavora in grandi mattatoi, tra animali sventrati, urla di capi incazzosi e altre situazioni tutto sommato ben note a chi frequenti la letteratura di quelle parti.

Non c’è molto altro da dire sulla trama, che scorre lineare e senza grandi colpi di scena, se non che si tratta, in fondo, di un elemento marginale dell’opera. Quest’ultima è piuttosto il canto lirico di un uomo nella metropoli. Diversamente dal Bukowski di Kid Polvere di Stelle, il famoso racconto di Storie di ordinaria follia, che vede un personaggio in una condizione sociale e lavorativa molto simile, Allen non è un misantropo, un odiatore seriale del mondo – per quanto, sia chiaro, detesti anche lui, addirittura con punte di antisemitismo, per poi subito pentirsene.

Non ci vuole molto per capacitarsene, il personaggio di Chuck Deckle, anche nella tristezza, nella delusione per i costanti cambi di lavoro, tutti senza soluzione e stabilità, è un uomo che vive nello stupore per ogni cosa che esiste e di cui lui percepisce il vivo palpitare. La città, le pozzanghere e i tombini, la benzina e le tracce delle gomme sull’asfalto, tutto per lui ha una sua potentissima e imperscrutabile magia (“Il traffico era un’enorme macchina ben oliata attraverso la quale potevo scivolare senza nemmeno toccare i comandi dell’auto. Le luci ammiccavano davanti a me, i cambi automatici scivolavano sibilando, come piastrine che fluiscono attraverso i capillari, e tutto era mio, tutta la trama e l’ordito degli incroci stradali, l’intero tessuto municipale”).

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A dirla tutta, non disprezza neppure il capitalismo e le multinazionali. Tutte quelle situazioni che farebbero saltare in aria un anti-sistema, pronto a definirle come immagini del degrado, vengono da lui accolte con una sorta di placida accettazione (“Mi piacciono i McDonald’s, mi piacciono le loro luci, gli odori caldi e insinuanti, l’informalità dell’ambiente. Ho notato già da tempo che è impossibile fare pensieri eccessivamente seri nei McDonald’s. Mi è capitato di entrare in un McDonald’s arrabbiato […] e di uscirne circondato da una nuvola di normalità, tra voci sommesse di normali americani che mi risuonavano nelle orecchie”).

Si è ben lontani qui dallo spirito degli europei marxisti, animati dai principi della Scuola di Francoforte, che, arrivati in America, vedono nell’edonismo del posto il male assoluto. Allen vive e sente in una dimensione totalmente altra dalla loro. Lo precisa lui stesso, oltre ogni ragionevole dubbio: “Sui bordi della vasca c’erano gruppi di ragazzi che fumavano, tutti snelli e chiari di pelle, e mi venne in mente che stavano tutti pensando al sesso, a essere nudi insieme a qualcuna […] capii finalmente che quei ragazzini avevano ragione, nei loro jeans con borchie d’ottone, che nel mondo non c’era niente di cui preoccuparsi. Di tutto si preoccupavano esperti professionisti dell’industria della preoccupazione, dell’industria dell’indignazione e dell’industria dello zelo morale”.

Anche l’amore per Jill, l’infermiera obesa che lo cura, quando finisce in ospedale, per quanto non porti a nulla, come la maggior parte delle situazioni della vita del protagonista, non è neppure ricordato con rancore (“nemmeno ho conquistato il cuore della ragazza che amavo, ma non m’importa. La amo comunque, e per sempre, vedo il suo volto sereno al di sopra del traffico, come se facesse parte dell’aria, della terra e del paesaggio”).

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Se, poi, non riesce ad adattarsi al ritmo frenetico del lavoro, alla lotta per la sopravvivenza, e a raggiungere la condizione di una vita normale è perché Chuck Deckle è un contemplativo, troppo entusiasta di ciò che vede per entrare in campo. Infatti, uno dei passi più belli è all’inizio, quando racconta una notte con una ragazza, mentre lui la aiuta, fuori dal furgone, a urinare. Persino la descrizione di un momento così insignificante, che per molti sarebbe trascurabile, se non schifoso, ha un afflato poetico dolcissimo (“Poi tenni un barattolo di caffè sotto di lei, che stava accovacciata davanti a me appoggiandosi alle mie ginocchia, con i suoi lunghi capelli castani sparsi sulla mia faccia, e quando sentii il suo tepore attraverso l’alluminio capii che ero innamorato, innamorato di Sparrow, della notte, del lieve movimento cigolante dell’assale posteriore, in quell’ampio e ondulato paesaggio dove non si vedevano luci umane”).

Insomma, si rassegni chi vorrebbe trasformare il romanzo nell’ennesimo atto d’accusa contro l’America. Allen è nato come lirico e la sua narrativa è un gigantesco poema d’amore, in tutto e per tutto nello spirito che fu anche di Whitman. Il realismo socialista non lo riguarda.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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