Il Detonatore

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“L’APOSTOLO DI PIETRA” DI NIFFOI: LA REALTÀ AFFERRATA CON IL GUANTO DELLA FANTASIA (di Matteo Fais)

Un romanzo di Salvatore Niffoi è un po’ come un lungo corridoio pieno zeppo di quadri, ognuno con una sua storia, che solo lui può raccontare. Su un motivo dominante, solido come il tronco di una quercia, l’autore intreccia rami e scuote foglie, ne segue in controluce le trame, compiendo salti mortali con la festosità di un infante che ha fatto buca a scuola e se ne è andato in campagna con gli amici.

L’apostolo di pietra (Giunti) è proprio concepito così. In un paesino immaginario della Sardegna, Oropische, tutti, una notte di San Lorenzo, sognano “un apostolo di pietra che, ciondolando la testa peggio di un ubriaco, scendeva da una scala di cristallo scolpita in un ovale turchese. Aveva i capelli lunghi, ondulati e bianchi, avanzi di lino strappati a una vecchia tela”. Il santo, effettivamente, comparirà, scatenando la gioia dei paesani, sempre bisognosi di provvidenza, conforto e pane quotidiano possibilmente non così duro da spaccare i pochi denti marci rimasti.

Il nuovo romanzo di Salvatore Niffoi.

La cornice narrativa è sicuramente in linea con il realismo magico dell’autore sardo. Infatti, anche in questo caso, non è con una trama sopra le righe che si cercherà di saziare il lettore. Quello che realmente fa la differenza è ancora una volta la gioia narrativa di Niffoi, quel piacere del raccontare e cesellare paragonabile alla dedizione della vecchia che porta avanti il suo ricamo mentre il tempo cerca di attirarla a sé strattonandole la gonna.

Ogni descrizione è una sfida vinta sulla resistenza della parola a dire l’essenza, al dare vita all’immaginazione, a fare carne della visione. Ogni cosa collabora e si presta a significare altro da sé in una danza di specchi fatta di infiniti riflessi (“Il vento si era calmato e in cielo era rimasta solo una grossa nuvola bianca che sembrava una pecora volante”).

Il mondo, sembra dire l’autore, è un tessuto di analogie e somiglianze che si può raccontare solo facendone emergere la sua intima struttura di rimandi senza fine (“Il volto, grinzoso come una plancia di sughero appena strappata dal tronco, era quello di un uomo senza pace. Un uomo che in vita di sicuro aveva masticato spighe mature, pezzi di ossidiana e fango indurito dallo scirocco. Aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto tanto e i piedi scalzi. Piedi sporchi, piccoli e nodosi, di santo che aveva camminato soltanto su strade di pietra e campi di ortiche. Unghie incarnite e mani callose, abituate a maneggiare il cuneo, la mazza di ferro, l’aratro e il coltello”).

È proprio il caso di dirlo, qui è tutta una questione di stile, in una giostra che si muove “dal puro all’impuro, dall’ostia alla merda, dalla polvere al buio, in cerca di quello che non esiste”, se non dopo che le frasi gli hanno dato vita.

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La dote ritrattistica dello scrittore di Orani genera nel testo punti di assoluta perfezione, in un equilibrio superiore di ruvidezza ed empatia. Davvero, viene da pensare che tante figure, cose, situazioni non avrebbero potuto trovare una forma migliore in prosa. Solo lui possiede la lente attraverso cui ha scelto di mostrarci il mondo (“Menicu aveva la pelle scura ricamata da ferite di armi da fuoco e coltello. Il lungo arco delle sue ciglia metteva in evidenza il verde di occhi che avevano sofferto il freddo e la sete. I denti bianchi erano incastonati come pietre preziose tra mandibole abituate a mangiare pane nero, sofferenza, solitudine. Le sue mani, anche quando taceva, lanciavano messaggi simbolici tracciando segni che poi venivano inghiottiti dal silenzio. Il suo corpo era un mosaico di pezzi tristi che si abbandonavano a un sorriso felice soltanto quando incontrava Lenia Tarredda”).

Quello che segna in particolare queste pagine, però, è ancora quella divertentissima forza drammatica che dosa sapientemente gli elementi dell’esistenza umana, la tristezza e il ridicolo. La scrittura di Niffoi, insomma, non ha bisogno di scegliere tra la tragedia e la commedia, ma ricalca il paradosso di ogni vita, il suo altalenare (“Nelle esistenze troppo semplici e troppo complicate di Oropische, fin da bambino si era inserito come un giocoliere. Sembrava darsi a tutti sorridendo, e invece si teneva come a mezz’aria sulle umane miserie, con lo sguardo disincantato di chi sa di ascoltare cose già sentite […] Lui però voleva una femmina con la testa pesante quanto il culo, non era uomo da prendi e fotti […] Non c’era amore possibile con chi non considerava il tempo come il vero peccato originale. Secondo lui l’uomo era stato punito da Dio perché aveva scoperto il valore del tempo e l’impossibilità di essere eterno. Quello della mela proibita era al confronto peccatuccio di poco conto, fumo negli occhi per le beghine. Dio aveva fatto figli e figliastri, era stato buono con gli alberi e con le pietre, e l’uomo lo aveva cacato sulla terra come una torta di mucca, senza dirgli ne bà ne bò”).

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Ciò che emerge di particolarmente interessante, tra le altre cose, in L’apostolo di pietra, è la visione che della Fede e della Provvidenza porta avanti lo scrittore, in una rinnovata dialettica tra cielo e terra. Il Santo che torna tra gli umani e si trova a fare i conti con le loro quotidiane bassezze, fino a non sopportarli più, fino a rendersi, insomma, a sua volta, molto umano (“A volte si sentiva stanco di quella gente perraliosa e indecisa, di certa prepotenza malcelata, dell’invidia consumata di nascosto a grandi sorsate, come l’acquavite. In quei momenti pensava di essere stato mandato a Oropische dal Padreterno per punizione, come quando si trasferisce controvoglia un carabiniere continentale da quelle parti. Allora il paese gli sembrava un grande pane di cera e pietra, con gli abitanti che ronzavano intorno al nulla”).

Niffoi si muove in mezzo a tutti questi scenari fatti di situazioni e luoghi immaginari come il protagonista di Woody Allen, in Harry a pezzi, vive tra le sue creazioni mentali non tanto, come potrebbe sembrare, per eludere la realtà, ma perché questa sfugge se non la si afferra con i guanti della fantasia.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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