Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

ECCO IL NUOVO COMPITINO FEMMINISTA E POLITICAMENTE CORRETTO: “RITRATTO DI DONNA” DI CRISTIAN MANNU (di Matteo Fais)

Tanti uomini – e, purtroppo, molti scrittori –, oggigiorno, sono convinti che, per espiare il peccato di appartenere al presunto genere degli oppressori – quello maschile –, debbano spendersi in ogni modo a dipingere la donna come una povera vittima, debole, fragile, sempre alla mercé di un mondo avverso. Questa versione è, invero, del tutto speculare e affine all’altrettanto sciocca immagine dell’angelo del focolare.

Se si vuole realmente riconoscere un qualche credito al femminile – o meglio ancora se si ritiene, intimamente, che sia pari al maschile –, si ha da evitare in ogni modo di tratteggiarlo con il solito pietismo che si riserva ai portatori di handicap.

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C’è meno misoginia nel maschilismo da animale ferito di un Nietzsche che invita, quando si va trovare la propria donna, a portarsi dietro la frusta che in mille tedofori del nuovo femminismo imperante. Il filosofo tedesco era ben conscio che la femmina, sotto il guanto, può ben nascondere artigli da tigre – e saperli usare. 

Naturalmente, non è il solo a essersene accorto. Flaubert aveva ben compreso che la cara Emma Bovary, in quel mondo a trazione virile, avrebbe giocato tutte le sue carte per sopravvivere e trovare i soldi per far fronte alle sue necessità da acquirente compulsiva. E se era costretta a recitare il ruolo della brava moglie in società, non per questo si sarebbe negata tutti i piaceri di cui una donna in carne e ossa ha bisogno, a costo della menzogna e dell’inganno, del tradimento e del raggiro.

Ma vogliamo parlare della grande lezione di Nabokov? Non è forse vero che quella adorabile stronzetta di Lolita, che certamente è vittima di un rapporto non propriamente paritario, sa comunque far fronte ai giramenti di testa e alle passioni intemperanti del maturo Humbert, per non dire che se lo gioca tra la cervice e le tube di falloppio da perversa manipolatrice?

Certo, tutto questo deve essere sfuggito al Cristian Mannu di Ritratto di donna (Mondadori). Lo scrittore sardo licenzia infatti un testo che sembra un compitino politicamente corretto da scuola media, pronto per essere consegnato nelle mani della arcigna Professoressa Michela Murgia, incontrando ovviamente la sua pelosa simpatia.  

L’ultimo libro di Cristian Mannu, Ritratto di donna, Mondadori.

La storia è di una semplicità disarmante, quanto tristemente steriotipata. Una rapporto travagliato tra madre e figlia. Il libro è diviso in due parti: la prima con il punto di vista della più giovane; la seconda con quello della vecchia. Inutile perdersi in ulteriori particolari sulla trama – si tratta dell’ennesima favoletta con le consuete figure femminili su cui, oggi, scrivono più o meno tutti.

A ogni modo, oltre a ignorare che anche la donna, come ogni essere umano, è fatta di aspirazioni allo splendore e rovinose cadute nella più abietta miseria morale, Mannu ha confezionato un romanzo scritto con un stile piatto e senza slanci, di mortificante carenza lirica. Frasi come “Senti un piccolo vuoto, come quando ti manca qualcosa ma non sai bene cosa” sono da prolasso anale e smuovono anche l’intestino più pigro. Per non parlare di “I discorsi sul sesso, con le amiche, da lì in avanti. Le allusioni, le risatine, i rossori, l’enciclopedia verde sfogliata di nascosto per cercare informazioni che nessuno ti dava. I dolori, ogni mese. Ogni mese il disfarsi e rifarsi. E il piacere, cercato e scoperto per caso, una sera. L’illusoria brevità di una carezza, consolante e frustrante al contempo. Da tenere nascosta”. Ma, soprattutto, perché andare a capo, dopo ogni frase, come fa lui in questo e in molti altri passaggi del testo? Mettendo in colonna una sequela di ammorbanti banalità, non si sottolinea niente. Sembra semplicemente che l’autore stia tentando di rubare mezza paginetta in più, come quando a scuola non si sapeva cosa cazzo scrivere, per riempire il foglio protocollo, durante il tema, trovandosi a dover trattare di un argomento tediosissimo.

Ma non finisce qui. Come reagire, se non coprendosi gli occhi con la mano, di fronte a perle tipo “Ti piaceva tradurre, cercare i significati più adatti nel dizionario, cogliere le sfumature, gli incastri, riflettere sul senso di ogni parola, sul suo relazionarsi con le altre. Nel farlo ti ritrovavi a rovesciare prospettive abusate, a mettere in discussione le cose consuete. Ti sembrava che potessero aprirsi le porte di altri mondi possibili”. Roba da liceale, anzi da ginnasiale – un residuo di acne letterario puberale. Davvero, qui, quanto a “prospettive abusate”, l’autore sembra aver pescato dalle peggiori pagine della sua Smemoranda delle superiori.

Per il resto, i personaggi femminili di Mannu hanno la profondità dell’acqua della pasta, sopravvissuta alla bollitura, sul fondo della pentola; una pozzanghera di indigeribili ovvietà trite e ritrite. Una donna che parte dalla Sardegna, approda in Francia, lì si laurea e diventa scrittrice di successo – che originalità, una storia simile non si era mai sentita! –, ha dovuto aspettare di vedere la madre moribonda per fare pace con lei? Prima di allora, non poteva arrivare ad afferrare che aver perso il marito, essersi trovata in difficoltà economica, doveva averla resa depressa, intrattabile, distante? Caspita, questa scrittrice deve proprio avere la stessa empatia di chi le ha dato vita sulla pagina! Del resto, tutta l’epica che l’autore riesce a costruire su di lei si sostanzia in “Non ti interessava barattare la tua libertà. Di questo eri sicura. Così come eri sicura che avresti trovato altrove quello che cercavi, anche se non sapevi cosa, anche se non sapevi dove, quando”. Ogni sfigato provincialotto, al bar, il sabato sera, ripete questo stanco mantra.

Dulcis in fundo, non poteva mancare il fardello tipico di tutti gli scrittori sardi, ovvero parlare per la milionesima volta, con nostalgia d’ordinanza, della loro isoletta galleggiante nel Mediterraneo. Attenzione, non che ci sia niente di male nel raccontare l’Isola Sarda, ma leggere passi su Cagliari come quello che segue fa rimpiangere le guide turistiche che si trovano nei b&b da 30 euro a notte: “la basilica bianca di Bonaria (‘La nostra Maria di Casteddu’, come diceva ogni volta che ci passavamo davanti) che svetta tra il verde del mare e l’azzurro del cielo; il palazzo civico con le due torri d’avorio e gli obelischi dei quattro mori bendati; i portici pieni di gente e colori; le jacarande lilla del Largo; via Stretta a Castello con i suoi chiaroscuri, i suoi gatti e i suoi vasi di fiori lasciati per strada come in un giardino; la Sella del Diavolo in un giorno di pioggia”. Mannu ha il problema di non saper illuminare luoghi e cose, un’incapacità congenita nel trasmettere il loro mistero di colori bruciati dal sole e sapori resi inafferrabili dal vento. La sua Sardegna è una superficie appena sfiorata, una cartolina sbiadita che un continentale spedisce a Milano, buona solo per coloro che non hanno mai visto se non cemento e centri commerciali (“Gli stessi silenzi di quell’ultima estate nella casa in campagna dei tuoi nonni paterni, sotto i tacchi calcarei di Jerzu, con tuo cugino Marcello, a inseguire cavallette e lucertole, tra rosmarino e basilico, sotto il sole che bruciava le piante e la pelle; a staccare pomodori maturi dall’orto per succhiarli e mangiarli ridendo senza farvi vedere dai grandi; e poi ad aspettare svegli, fino a tardi, che le volpi si avvicinassero, sotto la luna, nei giorni più secchi, per bere un po’ d’acqua dalla vostra ciotola in latta”). Ci mancano solo gli abitanti dei nuraghi e il quadretto per i turisti è bello che pronto da mettere in valigia.

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Riposto questo capolavoro di monumentale dozzinalità, meglio rispolverare, se proprio si vuole leggere di Sardegna, uno dei pochi scrittori che, con la prosa, ha dimostrato di essere un fine spadaccino della pattadese, Salvatore Niffoi. Lui sì, questa terra ingrata e dura, pietrosa di silenzio e dolore, ha il potere divino di contenerla in sé e plasmarla come un ceramista. Certo, nei suoi libri, non troverete femminismo da catena di montaggio dei buoni sentimenti. Le donne di Niffoi sono vere. Se fanno le bagasse per necessità, hanno una dignità e un forza che questi personaggini da abbecedario progressista si sognano. Leggete la storia di Tzia Certina, in Cristolu, “una puttana girandolona e capricciosa” che “aveva quattro figli diversi come le stagioni, per carattere e lineamenti” e “di suo forse non era mai stata brutta, ma col coitare a ogni ora per un pezzo di pane d’orzo o una vescica di sugna, le avevano incrudito lo sguardo e rubato le illusioni. Aveva la faccia di una che vendeva tempo morto, di una che si era abbandonata controvoglia all’asfissia della quotidianità di Orotho”. Lei, per stare in piedi a livello narrativo, non ha bisogno di un basamento di pietà costruito dal solito maschietto solidale, in crisi col suo testosterone, perché “Dio fa il suo mestiere e io il mio! […] C’è passata più gente qui che nel confessionale, cosa credi? Ricordati che da casa mia la gente esce contenta come dopo la comunione! Ma non te l’ha detto ancora nessuno che se la preghiera mette in pace lo spirito, l’amore mette in pace tutto il resto?”.

Altro che stronzate! Poi, sta a voi di scegliere tra il genio e il distributore automatico di banalità.

Matteo Fais

Canale Telegram di Matteo Fais: https://t.me/matteofais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.


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