Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

SCRITTORI ANTICOMUNISTI – ALEKSANDER WAT, “IL MIO SECOLO”: “L’ESSENZA DELLO STALINISMO È L’AVVELENAMENTO DELL’UOMO INTERIORE”(di Davide Cavaliere)

“Chiunque desideri una vita tranquilla ha fatto male a nascere nel ventesimo secolo”, recita una frase attribuita a Lev Trockij. Il Novecento, infatti, è stato testimone di vite straordinarie generate da circostanze eccezionali. Una di queste esistenze sublimi e terribili è certamente quella del poeta ebreo-polacco Aleksander Wat.

Acclamato come uno dei lirici polacchi più significativi del secolo scorso, la fama di Wat è legata soprattutto a Il mio secolo, un lungo resoconto biografico orale, rilasciato all’amico premio Nobel Czesław Miłosz e da quest’ultimo trascritto dopo il suicidio del protagonista, da lungo tempo tormentato dai postumi di un colpo apoplettico.

Nato il 1° maggio 1900 a Varsavia, il giovane Wat crebbe in un ambiente poliglotta e cosmopolita, in una famiglia di ebrei assimilati di antiche tradizioni giudaiche, fra i suoi antenati poteva annoverare Isaac Luria, il celebre cabalista del XVI secolo, e Rashi, il rabbino di Troyes dell’XI secolo, autore di commenti alla Bibbia capaci d’ispirare grandi scrittori ebrei come Shmuel Yosef Agnon ed Elie Wiesel.

Sensibile ai cambiamenti in atto nella letteratura e nell’arte, esordisce come poeta d’avanguardia ispirato dal Futurismo marinettiano, dal Dadaismo e dalla libertà creativa di Majakovskij. Irriverente e iconoclasta, Wat si scopre incapace di sopportare il nichilismo della sua visione del mondo. Alla ricerca di un senso dell’esistenza, che non riesce a trovare nella fede dei suoi illustri antenati, aderisce al comunismo: “Rimaneva una sola alternativa, una sola risposta globale alla negazione. Tutta la malattia era generata infatti da quel bisogno, dalla fame di un’idea omnicomprensiva. […] E il comunismo era nato per soddisfare quella fame”.

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Nel corso degli anni Trenta, però, presentisce la natura diabolica di tale filosofia e matura il suo distacco dalla dottrina marxista-leninista, che vede incarnarsi in modo coerente e completo nel terrore staliniano: “Io sostengo sempre in modo assoluto che l’unica perfetta e pura realizzazione del marxismo e del comunismo sia stato lo stalinismo, e in particolare lo stalinismo degli anni dal 1937 al 1941 col suo magnifico terrore”. Una presa di coscienza che gli costerà molto cara.

Wat, allo scoccare della “mezzanotte del secolo”, ossia al momento dell’invasione nazi-sovietica della Polonia, fugge con la moglie Ola e il figlioletto Andrej da Varsavia a Leopoli, allora polacca. In quella città mitteleuropea avviene il suo primo incontro con il mondo russo: “I primi russi li incontrai a Łuck, una tranquilla cittadina di presidio delle zone orientali della Polonia […] quei volti tartarici, quelle uniformi cenciose, quegli elmi con le punte da ferrivecchi mongoli: l’Asia, insomma, l’Asia più asiatica che si può, Asia a bizzeffe”, e ancora: “L’opposizione Asia-Europa credevo fosse una ciancia della propaganda antisovietica, roba che apparteneva all’Ottocento, una superficiale banalità. E qui tutt’a un tratto: l’Asia assoluta.

Arrestato dall’NKVD in modo teatrale, quasi certamente a causa di una delazione, Wat viene condotto nel carcere di Zamarstynov, dove ha inizio la sua odissea nelle prigioni e nei lager sovietici, che lo condurrà dalla Polonia alla Lubjanka, sede dei servizi segreti, fino ad Alma Ata, capitale del Kazakistan.

Nel corso delle interminabili prigionie e dei meschini interrogatori, in celle soffocanti e malsane, il poeta polacco giunge a identificare il comunismo con il Male e con il Diavolo nella Storia. Del “Principe delle tenebre” avrà una visione inquietante e potente: “E io vidi il diavolo, sì, il diavolo con gli zoccoli, quello dell’opera, lo vidi davvero, doveva essere un’allucinazione dovuta alla fame, ma non solo lo vidi, sentii quasi l’odore dello zolfo […] quello era il diavolo nella storia. Perché quella era la storia. La guerra russo-tedesca era infatti appena scoppiata: Armageddon si stava avvicinando”.

Il comunismo diverrà per lui repellente finanche come categoria estetico-morale: “Il mio atteggiamento verso il comunismo è rimasto poi segnato per tutta la vita dalla visione e dal pensiero di quanta bellezza esso abbia calpestato e distrutto.

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Wat, gravemente denutrito, tormentato dal dubbio circa la sorte dei suoi familiari e fiaccato da un ictus, che riterrà sempre un castigo divino per la sua giovanile compromissione col marxismo, troverà proprio nella bellezza la forza necessaria a sopravvivere.

In un primo momento, nella prigione di via Zamarstynov, a Leopoli, attraversando un corridoio che lo conduceva a delle latrine orrendamente sudicie, passava davanti a una finestra aperta su un dolce paesaggio collinare, da dove “arriva l’odore dei prati, soprattutto del fieno”. Quegli attimi, per Wat, rappresentavano la felicità, anzi “non era solo la felicità, era la katharsis, un lavaggio interiore, psichico, spirituale”.

Poi, detenuto nella temuta prigione della Lubjanka, mentre si sgranchiva le gambe con altri prigionieri sul tetto della galera, nel freddo di una primavera moscovita, udì un frammento della Passione Secondo Matteo di Johann Sebastian Bach, che gli permise di resistere e di continuare a vivere.

Quei fugaci lampi di bellezza, il profumo dell’erba, le note della Matthäus-Passion, come anche gli inni mariani intonati da alcuni prigionieri ucraini, lo convinsero che “un uomo resta sempre un uomo, perfino in quell’orribile miseria”, e che esso è naturalmente chiamato “alla preghiera, alla madre, al pasto della sera, a quella casa a cui è tempo di tornare”.

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Le considerazioni maturate dal narratore, che insieme alla moglie e al figlioletto sopravviverà alle persecuzioni staliniane, possono apparire, per usare un’espressione di Arthur Koestler, “sotto il manto goffo e grossolano degli eterni luoghi comuni”, ma sono proprio la naturalità e l’intimità dell’uomo ciò che i regimi totalitari hanno tentato di cancellare: “l’essenza dello stalinismo è l‘avvelenamento dell’uomo interiore, affinché prima rimpicciolisca, come le testine dei cacciatori di teste, piccole teste rinsecchite, e poi non tanto marcisca – i comunisti hanno paura del marciume interiore –, quanto piuttosto si disperda in polvere”.

Aleksander Wat, con Gustaw Herling e Józef Czapski, è stato uno dei principali testimoni dell’oppressione russo-sovietica della Polonia, la cui lettura aiuta a gettare una luce chiarificatrice sulla Russia, che tuttora non ha dismesso le sue terrificanti carceri siberiane e seguita a minacciare l’Europa orientale.

Il mio secolo è una lettura fondamentale per tutti coloro che intendono disintossicarsi dagli oppiacei ideologici, per ritrovare fiducia nella persona umana, come nella bellezza del reale che, oltre l’orrore della Storia, rimane dolce come le mele di Alma Ata.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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