Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

LA VERA EDUCAZIONE SENTIMENTALE SAREBBE LEGGERE L’EPISTOLARIO TRA SIBILLA ALERAMO E VINCENZO CARDARELLI (di Matteo Fais)

Altro che educazione sessuale, sentimentale, studi di genere e idiozie varie! A scuola, basterebbe far leggere i poeti, per insegnare ad amare, soprattutto quelli dei tempi andati, quando le comunicazioni non erano esattamente istantanee come oggi e le parole si meditavano – al massimo, si mandavano telegrammi, per notizie particolarmente urgenti.

A quei tempi, ciò che si diceva si poteva ponderare, distillare, sudarlo sulla carta. Ogni lettera scritta era fatica, perché andava vergata, e richiedeva di sviluppare una certa propensione alla pazienza, a pensare che ci sarebbero voluti giorni prima di ricevere una risposta, o di poter correggere il tiro – anche all’errore non esisteva possibilità di un rimedio immediato.

Allora, nessuno blaterava di amore tossico. Il dramma era ammesso, anzi incoraggiato da una lunga tradizione. Oggi, un’amante lontana si lamenta per la mancata vicinanza di qualche mese. In illo tempore si parlava a una donna difficile da incontrare e raggiungere, praticamente mai presente. Gli spostamenti erano una tribolazione. Ancora prima, folli come pochi altri – si pensi a Petrarca –, i poeti intrattenevano anche dialoghi con la povera femmina trapassata, cercavano con le parole di aggirare il limite posto dalla morte.

È in questa cornice che possiamo immaginare lo scambio epistolare tra due dei massimi esponenti delle Patrie Lettere, Sibilla Aleramo e Vincenzo Cardarelli, nei primi decenni del secolo scorso – il libro è comparso in Italia nel 1974, per i tipi della Newton Compton Italia. Lei era già autrice di Una donna, romanzo proto femminista di successo internazionale. Lui era un giovinotto – dieci anni meno di lei – che si arrabattava da collaboratore di giornali, ma la cui vera aspirazione era la poesia.

I due si incontreranno e ameranno – poco a dire la verità, almeno per i parametri odierni. Le lettere vanno dal 1909 al 1915 e contemplano solo le missive del poeta, essendo che quelle di lei sono andate sfortunatamente distrutte, durante la Guerra, se non per qualche raro esemplare – che tremenda disgrazia! È interessante notare come l’uomo, forse troppo stoico e austero, preferisca la dimensione platonica a quella carnale, la cogitazione alla consumazione, proprio come sembra far intendere il suo famoso verso di Alla deriva, “La vita io l’ho castigata vivendola”.

Davvero terribile non poter leggere le repliche di lei, spirito certo più passionario, inquieto in un modo più bruciante e terreno. Eppure, Cardarelli ha un bisogno feroce di quella donna – e non solo perché le domanda costantemente assistenza economica. Sapere della sua esistenza sembra per lui segnare un punto fermo nel mondo, come avere una fede a cui rivolgersi, nel quotidiano, ogni volta che si cerca soccorso, o per orientarsi tra le ore che compongono i giorni (“Questa sera esco dal Redazione con una specie di orgogliosa serenità: mi pare di avere una meta, ho l’impressione di non essere più solo”).

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Non si può peraltro dire che Cardarelli non si serva della femmina come filtro anche per comprendere sé stesso e ripiegarsi ancora meglio sul proprio animo (“Amica mia, io non ho sofferto, mi pare, abbastanza per salire fino alla sua tristezza e penetrarla con sicuro occhio di giudice. Io non voglio indicarle nessun via, non sono un vanitoso. Nella lettera che strappai non analizzavo, esprimevo dei sentimenti […] Mi piace di mettere in caricatura il mio spirito qualche volta; per vederlo meglio. Ma che cosa potrebbe prendere lei da un giovanotto sentimentale, come me? Ecco, io ho paura della serietà del suo spirito, non voglio toccarlo con gesto facile; mi pare di essere troppo un fanciullo”).

Certo, la sua passione è diversa, tendente al metafisico, alla sublimazione (“Perdonate se innanzi a questa fiamma di vita che mi arde sul viso io rispondo con questa contenuta freddezza. Sibilla, io credo di poter levare in questo momento un mio canto poderoso. Il giorno della rivelazione è venuto: anche io sono risorto per voi”). Parrebbe quasi che amarla voglia dire scriverne e che, per sentirla fino in fondo, egli abbia bisogno di ricorrere alla forma letteraria (“E vorrei dire adesso, di quanta pena ardono queste mie nude parole”).

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La Aleramo è per Cardarelli – o meglio lui se la vuole figurare, contro ogni evidenza – come una creatura quasi celeste, una Beatrice che lo attende alle soglie di un paradiso tanto agognato (“Oggi sono stato un po’ alla Minerva e ho veduto il sarcofago aureo e istoriato di Santa Caterina, con le effigie della vergine scolpita sul coperchio, sotto l’altare: la luce dava al suo volto il sorriso dell’eternità. Ho pensato che non si muore: ho pensato a te”; “Tu sai che io non potrò mai dimenticare che ti debbo l’esser nato”). E la pensa e ricorda con una tenerezza incredibilmente innocente (“Oh, le ingenue parole che dimenticammo: ti amo!”).

Poi, anche lui è costretto dagli eventi a fare i conti con la vera natura di questa femmina scalpitante, troppo incuriosita dal mondo per essere sua in quel modo che sogna, puro e casto (“Bisogna essere molto forti veramente, per vivere con te? No. Bisogna essere freddi, egoisti, angusti, chiusi: bisogna, insomma non sentire questi momenti in cui il tuo amore oscilla sulla nostra testa come una condanna di morte”).

Sibilla è una donna, lui invece è troppo appassionato alla sua attività letteraria, quindi allo spirito e a una differente forma di vanità, tanto da non riuscire a vivere se non in essa e tramite questa (“Scrivere una lettera quanto leggerla, significa vivere di nulla. Eppure questo è il nostro destino. In silenzio, ricordando il lampo unico che ci rivelò e ci persuase, noi non sapremmo rimanere lungamente. Finiremo per dimenticarci. Abbiamo bisogno del dramma, perché abbiamo bisogno di morire”). Proprio per ciò, non capendo le ragioni di quell’essere vivente, lei gli sfugge continuamente tra le righe, ogni volta che cerca di mutarla in parole (“Tu non sai rinunziare se non è ciò che è irreparabilmente perduto. Non sai chiuderti e placarti in un aspetto. Vuoi essere infinita come l’eternità e la vita che è definita si vendica del tuo istinto smisurato facendoti acerbamente e continuamente soffrire”).

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Malgrado ciò, il poeta sa che la ratio essendi del maschio non trova altra radice oltre quel sentimento che illumina i giorni, dà loro un telos e un senso al malessere esistenziale, senza il quale ogni cosa è perduta (“E le giornate mie sono così prive di presentimenti e di sorprese, sono così irreparabilmente noiose ed eguali! E tu tornerai e non tornerai, ma io ti aspetterò. Perché tu sei un elemento della mia esistenza, e aspettando te io aspetto di vivere, e se tu non verrai, è inutile Amica ingannararsi, è inutile Amica tenere in piedi le belle parole col pathos mendace delle lettere, se tu non verrai io sono un uomo cancellato”).

Pensate davvero che le 30 ore annuali di educazione sessuale e sentimentale, condotte da influencer e personaggi famosi, potranno mai portare ai ragazzi tutto ciò che è racchiuso come un segreto ignoto nelle 300 pagine che Cardarelli inviò alla Aleramo, o in quelle che Dino Campana, amante sopraggiunto pochi tempi dopo, le scrisse? C’è più di una ragione per dubitarne.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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