Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

GALLONI, LA POESIA SOSPESA TRA IL MONDO E L’ETERNO (di Davide Cavaliere)

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Alcuni poeti, come taluni mistici, compositori e filosofi, sembrano vivere tra due mondi, con un occhio fisso sulla materia e uno puntato sull’altra vita, quella ai più invisibile degli angeli e delle anime. Gabriele Galloni era uno di loro, già e non ancora di là, ma nemmeno più veramente qui, come dimostrano i suoi conturbanti versi, raccolti ora in un’antologia, dal calzante e delicato titolo Sulla riva dei corpi e delle anime.

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Gabriele Galloni, Sulla riva dei corpi e delle anime, Crocetti Editore.

Lo sguardo del poeta si posa sugli uomini e le cose scorgendone la fondamentale ambiguità. Essi, infatti, sono composti di carne e di spirito, di eterno e di deperibile, di corpi e di anime, per l’appunto. Dimensioni che nei componimenti di Galloni si sovrappongono e s’intrecciano in una trama di fili Visibili e Invisibili, di simboli e metafore, che poi sono la struttura stessa della realtà: “Su questa terra secca che si sbriciola/ a ogni minima impronta di passagg / vivente; a dirci che un nuovo passaggio/ (sia pure lontanissimo) è possibile” (da Creatura Breve).

L’aldilà di poeta non è un oscuro Sheol (termine ebraico per indicare il regno dei morti), una tetra cisterna di anime grigie, bensì una spiaggia battuta dal mare, invasa da una luce accecante, implacabile, dove giocano coi resti di notturni falò e aghi di pino, disorientati fantasmi di sale: “I morti – loro, l’ultima/ didascalia del mondo/ conosciuto – in colloquio/ fitto tra un buio di falò e la resina/ delle pinete a mare (da In che luce cadranno). Mare e morte si trovano qui associati, come in Thomas Mann. Il mare consuma, corrode, smangia; il suo fulgore invita a chiudere gli occhi, ad appisolarsi, a morire in una vertigine di luce. Il mare, come i morti di Galloni, va e viene, torna sciabordando, scompare tra gli scogli in un risucchio: “Ci basterebbe credere a una riva;/ a una luce che vada/ scomparendo/ dietro gli scogli; o che un morto riviva,/ che si perda tornando” (da In che luce cadranno).

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La spiaggia, lenzuolo granulare, roccia sfibrata dal tempo, è la polvere dei morti che, inquieti come i vivi, cercano il senso della loro condizione: “Se la madre dei morti è sempre polvere/ i morti cercano la loro madre/ ogni sabato sera sulle spiagge/ libere; sotto le sedie o nei gelati/ caduti di mano ai ragazzini/ in chissà quante estati, in chissà quanti/ alberghi, marciapiedi, lungomari” (da In che luce cadranno). Ma chi sono i morti di Galloni? Nient’altro che l’ombra dei vivi, il loro negativo. Li separa un velo dicroico, che il poeta lacera con lampi neri: “I morti continuano a porsi/ le stesse domande dei vivi / rimangono i corsi e i ricorsi/ del vivere identici sulle/ due rive. In che luce cadranno/ tornati alle cellule” (da In che luce cadranno).

Come tutto ciò che è a contatto con l’Invisibile, Galloni ne è contaminato, il che lo rende spesso terrificante. Si ha l’impressione che non sia morto il giorno della sua scomparsa, ma che avesse già attraversato la morte in vita, che vivesse (e scrivesse) in un dopo morte. I versi contenuti in Creatura Breve sono ricolmi di «picassiane» ossessioni falliche (“Disegnarono il sesso del Signore/ sul muro insonne della loro casa”), cupe dissolvenze (“Ogni notte, in attesa che la carne/ ritorni a vivere, portiamo i nostri/ bambini al mare. Li guardiamo farsi/ buio nel buio; ritornare all’alba”), atti di pedofilia, salme e diavoli, il tutto immerso in un’atmosfera di ombroso cattolicesimo iberico. «Orrore sacro» è la prima espressione che viene in mente, qualcosa di simile all’erotismo di Bataille, dove puro e impuro, candore e sozzura si mescolano in versi abbaglianti che, qualche volta, degradano in soddisfatto compiacimento dell’orrore e del tabù

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Il poeta s’intrattiene col Mysterium fascinans e il mysterium tremendum, in un meraviglioso della morte e di una luce che oscura la vista quanto la notte. Bello in sì bella vista anco è l’orrore, volendo citare Torquato Tasso. Galloni domina la lingua, con la quale sa restituire la bellezza sinistra e disorientante degli strappi che congiungono aldilà e aldiqua. I suoi versi sono delle «controre» in cui si appisola nel grembo di un sole lugubre, mentre banchettano dèi e demoni meridiani: “Una luce che viva/ nei cordami laceri;/ una luce che maceri/ presso ogni riva – sapremo in questo modo/ dove trovarla sempre./ Adesso che Nettuno / è una festa di cielo in solitaria” (da L’estate del mondo).

Tutto è taedium vitae, abbandono interiore, svuotamento, noia mortale. Vivi e morti si aggirano su spiagge cristallizzate, canneti, in fronte alla superficie di un mare che arde come un roveto muto. Biancore di sole e di calce. «Essere con l’altro nella morte che avanza. O meglio, che maturava in noi e ci invadeva come un male radioso, come una luce penetrante che vi avrebbe divorati», così Jorge Semprún descrive la sua condizione e quella dei suoi compagni prigionieri in Buchenwald. La stessa luce sbranava Galloni.

Quanto mare: mi sveglierò nell’acqua.

Camminerò in eterno, le caviglie

sempre bagnate.

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Passeggiare senza meta. Anima in pena, “senza coordinate per un’altra vita”, su una sabbia morbida come seta, in prossimità di un cimitero sottomarino. Dopo aver letto queste poesie, la prossima volta che, coi pantaloni arrotolati, immergerete i piedi nell’acqua marina, tra il funebre garrito dei gabbiani e gli odori marcescenti dell’ibisco e dell’oleandro, penserete che la schiuma bianca che vi lambisce i calcagni altro non sia che il soffice bacio dell’aldilà.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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