Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

QUEL BELLISSIMO VIZIO DI LASCIARSI INGANNARE DA VERONICA TOMASSINI E DAI SUOI ROMANZI (di Matteo Fais)

Matti! Devono essere tutti matti! Lei che scrive, loro che hanno il coraggio di pubblicare un libro che è l’antitesi del commerciabile – se lo comprate al supermercato, non mettetelo vicino alla carne, nel carrello, la avvelenerebbe. Hanno scelto la rovina in grande stile – strepitoso! – e l’officiante del rito è certo quella giusta.

Finalmente è uscito! In tanti trepidavano con l’animo eccitato da diecimila post di annuncio. Veniva da chiedersi addirittura se questo libro esistesse davvero e, probabilmente, persino dopo averlo letto, il dubbio non sarà fugato, perché un romanzo di Veronica Tomassini non è un semplice romanzo e poi si intitola L’inganno – nomen omen – (La Nave di Teseo).

Veronica Tomassini, L’inganno, La Nave di Teseo.

Mai un titolo fu più adatto per della narrativa che non è narrativa, ma una preghiera aulica e scomposta che sfugge alla trama e alla fiction (“Nel momento più alto dell’amore, pensai, ho sempre avuto voglia di dormire, nascondermi, un feto nella placenta, dentro l’altro. Questo tipo di disposizione corrisponde al riposo che induce Dio e a Dio”); a una Milano, la cornice geografica, che è una truffa a cielo aperto (“era la distanza, non abbastanza esosa, dalla crudeltà, dall’inganno, dal rifiuto. Ridonda in me la guerra che non ho vinto […] ero entrata nella disposizione di voler irrimediabilmente costruire […] la metropoli stessa, mi ispirava una certa fretta. Il monito a realizzare un accidente […] C’era tutto un protocollo da redigere e rispondervi. Far parte, in definitiva. Far parte del genere umano che produce, ingrana la marcia dell’avvenire rumorosamente”).

Ma questo è, più di tutto, un libro sull’amore, ergo, va da sé, sull’inganno più grande, sulla speranza che confina ogni volta con l’autodistruzione (“Negli anni ho incontrato ciò che l’amore mi avrebbe restituito. Un chiodo dietro l’altro. Per amare dovevo essere inchiodata, tradita, ripudiata. Ho trovato questa soluzione”).

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C’è una donna che viene dalla Sicilia (“La mia morte morale era il Sud”) e arriva nella città della Madonnina per cercare un misterioso musicista, un trombettista. Una follia, insomma, anche se non c’è bisogno di scomodare la sospensione dell’incredulità, perché si sa come sono queste cose e come vanno: “L’amore è il mio grande assillo. La tentazione fuorviante, la sillabazione che si inceppa. E torno al balbettio antico. Voglio essere amata […] i sentimenti non sono un affare che si possa augurare, un fatto buono, giusto. No. Il sentimento è un vizio”.

Aspettarsi un lieto fine – ma già un inizio e una fine – è da pazzi con la Tomassini, perché “L’inganno è la distanza tra la mia innocenza e il mondo” e un vero scrittore non fa che “lacerare, aprire carne fremente e calda e tenera, senza l’accortezza di piegarsi a un mistero, a una devozione: lacerare carne fremente e tenera e non considerarlo nemmeno un sacrificio”. Scordatevi l’intreccio, l’unico dedalo conduce allo sprofondo. Si entra in un animo, quindi si perde anche la nozione del tempo di cui esso, agostinianamente, è produttore: “Nei miei romanzi, non esiste. Me l’hanno detto. Me l’hanno fatto notare. Sono blocchi narrativi ricorsivi, che tornano, di capitolo in capitolo”. Che gioco di crudele simpatia disseminare il testo con la sua esegesi già pronta, per chi sa rintracciarla!

Insomma, si è capito, questo non è un romanzo a tesi, non è neppure un testo di coerenza e coesione, ma di visione, di abbaglio, di allucinazione. Il filo rosso c’è – l’amore, porco cane! –, ma non è teso, semmai segmentato e vivisezionato, tra metropolitane e vie che recidono in mezzo al cuore, abitanti e abissi interiori (“riuscivo a non patire: non patire la desolazione del caotico rimestare di passi, clamori, fuliggine di una vita animosa, che produce e segna le ore”; “Mi siedo e non aspetto che la vita succeda e non le vado dietro, non la rincorro con le mie petulanze: la lascio lì, a giacere in urto con la speranza coltivata e moltissime proiezioni diventate travatura per indolenza o innocente cupidigia. La travatura di una vita malmessa”; “Potrebbe urtarmi un angelo e non lo riconoscerei”). Maledetta scrittrice, ti fa vivere la lettura con un evidenziatore tra le dita, come il soldato in trincea, sempre sul chi va là, aspetta l’ombra per cominciare a sparare!

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Superbo, a ogni modo, che tanta stolta speranza conviva con un cinismo di superiore ferocia (“C’è una specie di lustro razionale nella soluzione adottata dai professionisti della vita, che salgono e scendono scale mobili, timbrano ticket fendendo tornelli di sottopassaggi catacombali e non smettono di professare lo stesso la vita, un piede avanti all’altro”). Ci vuole talento per coniugare sofferenza e scelleratezza! Ma alla Tomassini possiamo perdonare di averci fatto sghignazzare amaramente, dopo essere riuscita a indurci la commozione: “la vita è il solito frugare su fatti che non accadono, trapiantare pensieri in orticelli aridi, tagliare il fico che non produce buoni frutti. Restare in attesa fino all’ultimo istante. E non sapere chi aspettare nondimeno”.

Tanta propensione all’amnistia perché, fin dal titolo, lei ci aveva avvisati: era tutto un raggiro. Aveva voglia di far dire alla protagonista “trovo sempre una panchina che aspetta me, che sono la profetessa delle panchine, la sacerdotessa delle attese. Mai tradotte in speranza”, per poi buttarti la verità così, en passant: “L’amore era ben oltre le cime, i colli. L’amore ultramondano. Era il solo Volto. Ma era difficile da accettare: occorreva armarsi di solitudini temprate, pazienza monumentale, vessilli da beati: non ero in grado”. Insomma lo sapeva fin dall’inizio, ma non poteva. Una specie di “video meliora proboque, deteriora sequor” (“vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio”). Dio era la soluzione, lo è sempre stato, lo si capisce lungo tutto il testo il richiamo metafisico, ma il mondo ha una forza di gravità da cui non si può sfuggire. Un inganno che dura un romanzo!

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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