Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

L’EDITORIALE – L’INUTILITÀ DEGLI INTELLETTUALI, DURANTE LA PANDEMIA (di Matteo Fais)

“Non credo più all’ingegno del popolo italiano/ Dove ogni intellettuale fa opinione/ Ma se lo guardi bene/ È il solito coglione”, cantava Giorgio Gaber nella magnifica La razza in estinzione. Eh già, in Italia, siamo circondati da intellettuali, gente che, per carità, avrà anche determinate competenze, ma risulta insopportabilmente slegata dalla realtà.

Prendiamo questa condizione di pandemia che stiamo affrontando da diversi mesi. Io non sono un negazionista, ma sono certo un fatalista. Non penso si possa fermare un Paese per un virus dalla mortalità bassissima. Ragionevolmente, direi che i più fragili, vecchi e pensionati, dovrebbero, per quanto possibile, tutelarsi. Ma, ribadisco, “per quanto possibile”, perché a un certo punto accade semplicemente che si muoia. Può succedere a un trentenne, o a un ottantenne. È la legge della vita. Una fregatura, nulla da dire, ma le cose stanno comunque così.

È certo, a ogni modo, che non si può continuare a chiudere e sprangare serrande. L’economia non può reggere, e particolarmente questa economia già intubata e da rianimare. Mi piacerebbe che questo lo riconoscessero tutti, dal postino all’accademico dei Lincei. In particolare, però, mi aspetterei che fosse quest’ultimo a prendere atto per primo della gravità della situazione. Purtroppo, però, qui da noi, gli intellettuali sono le persone meno sveglie che si possano trovare in circolazione. Ognuno interessato al giardinetto di fronte a casa sua, mancano tutti di una visione d’insieme. Davvero, mortificante.

Prendete, per esempio, l’accorato appello di Riccardo Muti contro la chiusura di teatri e sale da concerto. Ah, “il nutrimento dell’anima”, dice lui! Per carità, certamente la musica per lui è nutrimento dell’anima e del portafogli, ma non comprendo perché per un pizzaiolo, un barista, un fruttivendolo dovrebbe essere più facile chiudere tutto e starsene a casa. Ahinoi, anche il “nutrimento dell’anima” che vende il Maestro Muti si compra solo con i soldi ricavati dal sudore della propria fronte. Voglio dire: mica su Amazon un CD, un vinile, o un brano mp3, con Pavarotti che esegue il Rigoletto, lo si acquista cliccando sull’opzione “gratuito perché cibo per l’anima”. Persino al prestigioso teatro della Scala, a meno che tu non sia un vip a cui regalano l’ingresso, non si passa se non si dimostra di aver sborsato gli schei per pagare il biglietto. Al ragazzo che controlla gli ingressi, a fronte di tutti gli idealismi possibili, non gliene sbatte un cazzo del vostro desiderio di aragoste per lo spirito. Se non avete i soldi, vi sbatterà fuori a pedate nel culo, senza tante discussioni metafisiche.

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Ma naturalmente questi ragionamenti meschini non toccano Muti e i suoi sodali, chiusi come i nostri politici in una bolla dove non esiste la miseria della realtà. La domestica, con i suoi ottocento euro mensili, sa bene che lei il cibo dell’anima non se lo può permettere, esattamente come la verdura a chilometro zero che costa sei volte quella proveniente dalla Spagna. Spiace dirlo, ma anche per essere idealisti – e quindi intellettuali cretini – bisogna poterselo permettere. Altrimenti, si va di fronte al market di lusso, al teatro, al cinema, all’università e, contandosi le monetine in tasca, si deve amaramente prendere atto che certe cose sono “superflue”. E, infatti, a scanso di equivoci, precisiamolo bene, la cultura, in qualsiasi sua forma, è un “di più”: chi non ha da mangiare, non pensa a leggere Proust. Non ha la testa, la concentrazione. Chi non ha la sussistenza si arrabatra per cercare di sopravvivere e con le stronzate di uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo ci si pulisce il culo. Marx lo dice: “l’economia è la base di tutto”. Infatti, lui è uno dei pochissimi intellettuali da leggere fino alla fine dei tempi. Muti ci si può limitare ad ascoltarlo in teatro, sorvolando ampiamente sulle puttanate che gli pubblicano sui giornali per il semplice motivo che si chiama Riccardo Muti.

Ma non da meno del nostro affezionatissimo è Dacia Maraini. La scrittrice è preoccupatissima per la chiusura delle scuole. Il che, di per sé, sarebbe anche una cosa giusta – tanto più che questa didattica a distanza è sostanzialmente impossibile con professori che sono fermi, nel 2020, alla macchina da scrivere. Comunque, Dacia lo sa, “le scuole […] secondo me sono i posti più sicuri in questo momento per i nostri giovani” che tanto altrimenti se ne andrebbero “per le strade a infettare o infettarsi in piazze, giardinetti, qualche bar rimasto aperto”. Mi è oscuro come possa essere meno probabile infettarsi in un luogo chiuso e pieno di situazioni di assembramento come la scuola, che ai giardinetti, all’aperto. Già, ma l’ha detto Dacia Maraini, una grande autrice, e quindi ha ragione lei – ecco come pensiamo in Italia, secondo il più ottuso principio di auctoritas.

Questi sono gli intellettuali italiani, gente che chiuderebbe i market, ma lascerebbe aperti i teatri, oppure che crede sia più facile infettarsi all’aria aperta che in un luogo chiuso frequentato da centinaia di persone. Questa è la gente che dovrebbe farci da guida, quelli che hanno “studiato”, ma non sono in grado di afferrare concetti a cui arriverebbe l’ultimo dei muratori forte unicamente della sua terza media. Non stupitevi dunque se versiamo in queste condizioni.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. .

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