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“I MIEI KILLER NON SONO BUONI, MA UMANI”: Franz Krauspenhaar ci parla del suo ultimo romanzo

Franz Krauspenhaar mi ricorda quei versi, del cantautore Kris Kristofferson, citati anche in Taxi Driver: “è profeta e spacciatore […] un po’ falso un po’ sincero, tutto contraddizioni”. E, in effetti, lo scrittore in questione ha quell’aria un po’ stranita alla De Niro nel noto film di Scorsese. È facile anche immaginarlo di fronte allo specchio che parla da solo e punta la pistola verso la sua immagine riflessa. Insomma, matto è matto, ma geniale, come dimostra il suo nuovo romanzo appena uscito per Arkadia, La presenza e l’assenza. Krauspenhaar è certamente un Jim Thompson italiano, quando ci si mette. Sa il fatto suo e lo dimostra. 

Naturalmente, qualunque libro scriva e qualsiasi siano i suoi personaggi – pittori o investigatori, maniaci assassini e puttane –, lui è lì, sempre in agguato ma ben nascosto, pronto a lasciar cadere in ordine sparso digressioni e battute che fanno subito pensare “sì, questo è Franz”. 

L’ultimo libro di Krauspenhaar

Quando parliamo di noir, non si può non pensare a Jim Thompson, che non per niente figura come esergo al testo. In qual senso, il tuo romanzo si pone in continuità con tale tradizione?

Beh, sono passate ere geologiche da lui e tanta acqua sotto i ponti. Certamente scrittori come Thompson e Simenon sono i fari, per tutti quelli che fanno noir. Io, però, ne ho pubblicati appena due di romanzi di questo tipo, La presenza e l’assenza e Cattivo sangue, su un corpus di una dozzina di libri. Infatti, non mi considero uno scrittore di genere ma, casomai, oltre i cosiddetti generi. La mia ultima creatura si potrebbe definire, per esempio, un romanzo esistenziale sulla violenza. Certo, ci sono degli ingredienti tipici del noir. Poi c’è la mia scrittura, il mio modo di raccontare le cose. Spero sia quello a fare la differenza.

Nell’economia della tua opera, sono appunto tanti i generi che vengono esplorati, ma qual è il motivo per cui hai scelto di passare anche per la via del noir? Che cosa c’era che solo questo ti poteva permettere di esprimere?

Il Noir dà la possibilità di mettere nero su bianco l’aspetto ferino dell’animo umano in tutte le sue forme. La presenza e l’assenza, poi, è una specie di piccolo trattato sulla violenza, fisica e psicologica, e la sopraffazione. Naturalmente, non c’è soltanto il male, ma anche dei sentimenti positivi, proprio come c’è una presenza che fa da contraltare all’assenza di questa bellissima giovane donna scomparsa.

L’altra questione che non si può non discutere è il topos narrativo di Milano, che sempre torna nei tuoi libri. Ma la città della Madonnina può essere il degno scenario di un noir, similmente a New York o Los Angeles per uno scrittore americano?

Milano è una specie di acquario e può assomigliare a qualsiasi città europea o extraeuropea. Poi ci sono tante cose, idee, dialoghi che non sono esattamente italiani, ma sembrano semmai rimandare al noir francese, letterario e cinematografico. Tutto questo per dire che non faccio letteratura su Milano. Semplicemente, questa è lo sfondo a me più congeniale per raccontare una storia, perché la conosco e la vivo. Però, come mostra il mio Brasilia, o Le cose come stanno, ho ambientato romanzi anche altrove. Al contempo, Milano è un punto cardinale, direi di partenza o di approdo, in tutti i miei testi. Anche in Cattivo sangue, si iniziava da lì per poi spostarsi in modo itinerante attraverso città francesi e olandesi – quello era un noir, per così dire, on the road.

Il precedente noir di Krauspenhaar

Parliamo di queste figure che certamente tanto hanno affascinato la tua generazione, più o meno come i cowboy: gli investigatori. La caratteristica fondamentale dei tuoi libri, anche quando parli degli altri, è sempre il muoversi al confine dell’autofiction. Volevo quindi chiederti: in Guido Cravat, il protagonista, quanto c’è di te?

C’è molto di me, da un certo sentimentalismo alla pulsione violenta, che io magari non esprimo in un colpo di pistola ma in modo verbale. Allo stesso tempo, vi è la medesima vocazione a dire le cose come si pensano, all’essere scomodi. Per non parlare della tendenza alla malinconia unita alla capacità di reagire alle intemperie della vita. Sì, c’è molto di me, come in tanti personaggi di altri romanzi, ad esempio il Franco Scelsit di Grandi Momenti. Cravat è una creatura multidimensionale: si intenerisce, poi torna a essere un duro – è in stato di alterazione perenne. È un essere umano, nel senso migliore del termine, non un buono. I buoni non mi interessano, perché spesso non lo sono per niente, come ci dimostra quotidianamente la vita. A ogni modo, meglio non dire troppo. I personaggi vanno sempre un poco abbandonati a se stessi, per non cadere nel didascalico. Lasciamo questa pratica a chi scrive noir da viaggio, o altrimenti detti aeroportuali.

Anche questo romanzo è una storia italiana, come Le monetine del Raphaël. C’è l’industriale, la segretaria, l’ex poliziotto, la gente che cerca di arrabattarsi per sopravvivere, gli ambienti notturni metropolitani…

Sì, anche. La verità, però, è che io non sono uno scrittore che vuole raccontare la società. Io voglio narrare l’animo umano e, in ogni mio romanzo, faccio questo: racconto un’anima. In La presenza e l’assenza, per esempio, volevo far emergere i diversi lati di Cravat: l’investigatore, la persona sola e molto malinconica, la sua ricerca del riscatto.

In questo romanzo, come nel tuo precedente noir, vi è la presenza di alcuni killer. Come si entra nella mente di un assassino?

È un qualcosa che ti scatta dentro, come l’istinto omicida. La capacità è lì, nascosta al fondo del nostro sé. Potrebbe dipendere dal male che magari qualcuno ci ha fatto chissà quando e che lo scrittore sublima figurandosi una dimensione fattiva della vendetta. O, se di vendetta non si può parlare, immaginado quantomeno una risposta violenta. Comunque, mettersi nei panni di un assassino, per uno scrittore convinto dei suoi mezzi, è abbastanza semplice, perché è un uomo anche il killer. 

Matteo Fais


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