Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

PER UN NUOVO CANONE POETICO – PARENTI E KRAUSPENHAAR

INVITO ALLA LETTURA

di Matteo Fais

C’è bisogno di una nuova poesia. No, non deve essere un canone da imporre, ma che si impone, onde evitare una produzione che imiti l’oscena serialità degli articoli usciti dalla catena di montaggio. Casomai, è della catena di montaggio in sé – o meglio della sua assenza, oggigiorno – che bisognerebbe cominciare a parlare, ovvero del lavoro – quello che manca e quello che c’è, ma fa schifo. E non solo. C’è un mondo allo stremo, un’aria mefitica di fumi di scarico, gente che non dorme senza gli ansiolitici
che il grosso dei poeti vuole ignorare, più o meno come i radical chic evitano di guardare in direzione di quell’umanità autoctona per loro insopportabilmente miserabile perché poco avvezza all’aperitivo equosolidale. Questa poesia deve essere civile, nel senso di testimone di una civiltà, ma non partitica – il comizio berlingueriano in versi è deprecabile. 

Il lavoro di Luca Parenti e quello del sommo Franz Krauspenhaar, pur nella diversità, sembra muoversi in tal senso e lo fa, per fortuna, non nel rifiuto del lirico in nome di un prosastico che imita la versificazione con degli a capo scriteriati. Il ritmo e la musicalità restano, ma al servizio di una nuova narrazione che non è sogno di realtà “da poeta” (come il mare, il lago, e la natura incontaminata), ma bensì la vita dell’uomo che siamo diventati. Una vera lezione per chi crede che il poeta abbia un mondo, invece che stare nel mondo.

 

il grande camino arancione

il grande camino arancione

dell’ex manifattura tabacchi

s’erge come un totem di nulla

un grosso cazzo che non eiacula

senza palle e senza cuore

di fronte al cimitero degli autobus

le finestre spaccate suonano

percorse dal vento penetrante

il timbro acuto di un organo inquieto

ma non c’è più l’orchestra

e nemmeno la platea

il loggione l’han tirato giù

a colpi secchi di cannone

sembra di sentire i morti cantare

ma i morti non cantano

sono finiti nell’eterno dimenticatoio

ossario che crepita come un concerto di bartok

(anche shostakovich amava l’aspro suono

spigoloso ossuto del wood block

della frusta e soprattutto lo xilofono

fila d’ossa che si scuotono e s’arrabattano

per la fine del mondo)

la corsia preferenziale

percorsa da autobus vuoti

(gli spettri dei lavoratori

lungo la catena di montaggio

m’alitano addosso la loro anima catramata

e tumorale) le persone camminano

sotto il sole tiepido e poderoso

di una primavera che non c’è

sulla pallida pista ciclabile

sui sacchetti le cartacce la plastica

e tutta la merda dell’economia capitalistica

che ci fanno ingoiare ogni giorno

il mio lecca lecca sa di polimeri maleducati

il mio vestito buono non è cotone

né lana è tessuto da un dollaro al giorno

(ti diranno che è colpa tua

se l’antartide si sta sciogliendo

e gli orsi non sanno più

dove defecare e scopare)

siamo felici e dobbiamo comprare

la nostra gioia di vivere.

codice a barre reddito

isee detrazioni

e cittadinanza sfocata.

io sono un operaio

sono nato manovale.

umile discreto assente

come un fantasma incubato

negli incubi neri e vomitanti

nella risacca del sogno di gramsci

e compagni. ho le mani secche

nelle dita i tagli. mi fanno male

quando l’aria è fredda e ficcante

e le tonsille fremono tossendo

come un vecchio singulto di testata landini

compagni dai campi

i campi sono arsi dal sole

e uomini da pochi euro

senza sentimenti senza desideri

saranno sostituiti dalle macchine

compagni dalle officine

le officine sono sprangate

tutti al mare anche d’inverno

l’ultima spiaggia.

io sono un operaio

sono nato per costruire

assemblare e riparare

non saprei che altro fare.

ditemi voi. ditemi voi

le corde spezzate della chitarra

e quegli accordi dissonanti

dodecafonia degli sfratti.

ditemi voi del focolare domestico

e del sesso degli angeli.

ditemi voi del fuoco terminale

e della meraviglia di una nascita.

ditemi voi. ditemi voi

o tacete. per sempre.

paura nel sangue

preda. carne da macello.

Luca Parenti

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Vorrei nuotare anche se non so

Vorrei nuotare anche se non so,

non so sfilare all’acqua. Eppure è venuto

il sacro momento di tuffarsi in questa vita 

e nuotare, tra i cavalloni, i pesci e

i pedalò, i motoscafi e le navi 

fino a che la pelle non  si scolli dal corpo,

nell’ultimo soggiorno di una sofferta

personalità.

Hai il corpo in decomposizione e pesi

i fatti, ufficialmente sei morto senza

aver fatto nulla di veramente felice.

Hai fatto della tua vita un dribbling,

tra serpenti, il lavoro, la noia e quel

sentirsi un amaro scorrere per la gola

latrina, cercando piante nuove dove

confondere gli odori cattivi dentro

la soavità della natura, un pezzo

di timida esistenza, che completa

la nostra vita dentro un recinto

rassicurante.

Non hai corso per quarantadue minuti,

non  hai giocato a palla con le mosche 

per dilettanti fino alla fine, perché 

i polmoni li sentivi una capsula e la gola

era la camera di una casa, invasa 

dal gas prima dell’esplosione.

O forse da piccolini ho corso per ben

più oltre di quarantadue minuti, anche 

quasi due ore intorno al caseggiato.

Mi confondevo con la Maratona.

Oh tempi belli, quando mio padre era 

nel bosco e ci proteggeva, quando mio fratello

saliva scale e io lo proteggevo, ma nessuna

protezione andò a segno, loro furono

sempre appresso o all’arrivo di un viaggio,

incollati al viaggio, che è orrore, spostamento

di anime tra un inferno e l’altro.

Ecco perché mi muovo quasi poco,

all’emergenza, se ho il braccio ingessato

in un cocente pomeriggio di luglio

e mi chiamano a parlare un po’ a sud – non troppo,

di poesia e di cultura e romanzi, io vado –

non ho tempo di restare a dormire 

(o forse l’organizzazione non prevede il pernotto

per uno come me) bisogna sempre lasciar

passare avanti gli important person,

vanno in televisione tirando le biglie,

sperando che trovino una fossa dove

penetrare, ci sono anche poeti così,

che scrivono a caso, e ti spostano la sedia.

Ho forte ora il bisogno della tua aria anche

se non so chi sei, nemmeno lo sospetto.

Nell’abisso commerciale ci sono stato

quindici anni, un percorso, prima che

mio fratello uscisse. Invece di nuotare,

nella frescura mia balda, saziante del mare,

invece  di amare, dentro notti angeliche

ricordando canzoni lente, lentissime…

Ho lavorato per la causa di un costo,

di un buco nero, di un tunnel, di un dente

cariato alla misera fine dell’autostrada, 

pur di prendere l’aereo del ritorno.

Ero uno schiavo, ma libero e rabbioso

nei percorsi. Sentivo nell’auto roteare

un’idea di libertà, che si raggiunge

sempre e soltanto soli. La libertà 

non è mai collettiva, non riguarda altro

che l’individuale. Allora la nuotata

che non ho mai fatto, sarebbe questo

viaggiare di nuovo, una buona volta,

nell’auto del tuo corpo, fino a un arrivo

immaginato tra le onde, per poi

tornare felice a baciare la tua terra.

Nostalgia del mare a terra, e della terra

quando nuoti il mare, e la vita 

si risolve qui, in un buco nero.

Dove ti stringo la mano.

Franz Krauspenhaar

 

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