Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

STEFANO FERRI E IL SENSO DELL’ABITO (di Matteo Fais) 

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Perché è sbagliato ridere di uno storpio? Perché egli è vittima, abita quel corpo deformato dalla natura o dagli eventi contro la sua volontà, così come molte persone obese o affette da diversi tipi di patologie. Per motivi affini, sarebbe ignobile dileggiare una persona schizofrenica, o che manifestasse esteriormente – per esempio, con la perdita dei capelli – di essere afflitta da un cancro.

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Perché, invece, fissiamo e ridiamo sguaiatamente – se non siamo ben educati -, o sorridiamo – se abbiamo imparato le buone maniere – al cospetto di una persona vestita in modo decisamente eccentrico? Perché l’abito è una scelta che ognuno di noi fa al cospetto del resto dell’umanità, il suo biglietto da visita, il modo in cui tacitamente ci chiede di essere considerato

Nessuno crederebbe a un venditore di vestiti eleganti che non indossasse giacca e cravatta, come nessuno prenderebbe sul serio un calciatore che si presentasse sul campo con la tonaca del prete. 

Insomma, sì, l’abito fa il monaco e noi siamo la nostra apparenza esattamente come la profondità che, inevitabilmente, celiamo ma di cui cerchiamo di dare indizio nel modo in cui ci presentiamo. Chi darebbe credito a uno psicologo che ricevesse nella sua cucina, tra l’olezzo di fritto e bollito, magari indossando una canottiera sbiadita e le ciabattine da mare? Per quanto abile possa essere, pure Freud, in tenuta da spiaggia, risulterebbe quantomeno poco professionale.

Dunque, il signor o signora – la cosa non è chiara – Stefano Ferri, quando si lamenta che la gente gli sghignazza dietro per i suoi abiti smaccatamente femminili, più che suscitare ammirazione per la messa in discussione di certi stereotipi, fa pisciare dalle risate. Certo deridere è sempre sbagliato, ma andare in giro conciati come una vecchia sciura milanese che si reca a comprare la verdura è – questo bisogna riconoscerlo – un po’ provocarle certe reazioni.

Da un uomo ci si aspetta che vesta da uomo. E non si venga a dire che un tempo le donne non indossavano i pantaloni, come sostiene lui, perché queste infatti calzano un certo tipo di indumento pensato per le loro forme e lo portano in un certo modo. Osservate un maschio e una femmina in jeans, da dietro, mentre incedono e provate a dire che non si distinguono l’uno dall’altra.

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Un uomo vestito da donna fa sorridere perché semplicemente abbina a una certa struttura un vestiario che con essa non ha niente a che fare, esattamente come un signore in età e in evidente sovrappeso farebbe sogghignare se indossasse una maglietta aderente che si attaglia unicamente al fisico di un giovane palestrato, con i muscoli scolpiti e una V marcata. Un pancione che sbuchi fuori da un tessuto aderente non è consigliato a chi non cerchi di suscitare il ridicolo, esattamente come gli abiti di un clown non sono indicati per il direttore di una banca.

Se poi uno pretende comunque di identificarsi con qualcosa che non è – perché Ferri, questo è bene sottolinearlo, non è una donna -, sappia che non può esigere che gli altri condividano la sua visione distorta. Essere sé stessi è un sacrosanto diritto, non imporre la propria idea sugli altri. Si può certo pensare che sia nobilissimo leggere l’opera di Albert Camus e meditare la sua concezione dell’Assurdo, ma non è lecito recarsi al bar dello sport in periferia e pretendere che gli avventori sospendano la loro discussione sulle novità dell’imminente campionato calcistico per ascoltare l’appassionato parlare sul del letterato francese.

Se, poi, il signor/a Ferri vuole insistere, perché proprio ci tiene a far sapere all’Universo che lui è un uomo dal gusto femminile, sappia almeno che l’abito, nella sua funzione copritiva, serve anche per non essere ridotti alla propria oggettività e venir considerati solo come coscienza. Essendo nascosto, il soggetto chiede di non venir valutato per i suoi muscoli o l’assenza di questi, per l’attrattiva del suo corpo, per i gusti sessuali che ne scuotono i pensieri, ma solo per ciò che ha da sostenere, per il suo ruolo all’interno di un determinato contesto e via dicendo. 

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In tal senso, è folle da parte della donna che ostenta gambe, natiche e seno in pubblico sostenere che “io non sono solo la mia bellezza”. Chi ambisce a vedere presa in considerazione la propria persona per le caratteristiche altre, deve celare quanto più possibile quella dimensione del suo essere che lo rende oggetto tra gli oggetti.

Matteo Fais 

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.

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