Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

POETI CONTRO IL COMUNISMO – XU LIZHI (di Matteo Fais)

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“La fabbrica cattura le loro lacrime 
prima che abbiano la possibilità di cadere. 
Il tempo scorre, le loro teste perdute nella nebbia 
lo sfruttamento li invecchia 
il dolore fa gli straordinari giorno e notte”
(Xu Lizhi, Mangime per le macchine). 

La maggior parte delle persone pensa alla poesia come a un innocuo passatempo per borghesi languidi e privi di occupazione. Niente di più falso! La poesia è una scelta esistenziale, un modo di contrapporsi al mondo, di avversarlo, in particolare quello moderno con la sua inutile frenesia, la smania produttiva che lo attraversa dalla rivoluzione industriale alla follia stacanovista del comunismo.

La poesia può essere lotta, denuncia, rabbia che sale dalle viscere e si fa urlo contro un universo che non ci accetta e che risulta inaccettabile, come nel caso di Xu Lizhi, il poeta delle fabbriche cinesi, morto suicida a soli 24 anni (“sarò sempre in conflitto con questa società”).

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I suoi versi arrivano in Occidente da una traduzione inglese, facilmente ritracciabile online (http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/images/stories/libro%20poesie%20mangime%20per%20le%20macchine.pdf), raccontandoci quale sia la vera realtà della vita operaia nel regno del sol dell’avvenire. Nessun sindacato o scatto di anzianità, solo una misera esistenza in una malsana abitazione messa a disposizione dei lavoratori costretti a turni che vanno anche oltre le 12 ore (“Uno spazio di dieci metri quadri/ ristretto e umido, mai luce del sole tutto l’anno/ Qui mangio, dormo caco e penso/ tossisco, ho mal di testa, invecchio/ mi ammalo ma ancora non riesco a morire”).

Al giovane poeta non resta altro che la volontà di farla finita e di scrivere per affrancarsi dallo schifo dell’universo comunista, fondato sullo sfruttamento, in cui l’individuo non esiste, se non come meccanismo di un sistema atroce e privo di qualsiasi umana pietas (“Di nuovo con occhi sbarrati e sguardo assente/ sotto la cupa luce giallognola, ridacchiando come un idiota,/ cammino avanti e indietro/ canticchio, leggo, scrivo poesie/ Ogni volta che apro la finestra o il cancello di vimini/ somiglio a un uomo morto che lentamente/ tenta di sollevare il coperchio di una bara”). La famosa alienazione marxista è al massimo grado, fino a trasfigurarsi in pulsione di morte.

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Se qui da noi gli operai hanno preteso e ottenuto qualcosa di simile a una vita almeno vagamente dignitosa, in Cina, non si può dire che la condizione dei lavoratori sia anche solo paragonabile al peggiore Occidente. Neanche i racconti dei nonni sono così spaventosi: “Ho ingoiato una luna fatta d’acciaio/ […] Ho ingoiato queste acque di scolo industriali, queste carte di disoccupazione/ La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo/ Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza”.

Ma la poesia non è oppio dei popoli o sospiro della creatura oppressa fine a sé stesso, come la religione, bensì l’ultima arma in mano al soggetto “addestrato” dal moloch rosso “ad essere docile”. L’uomo che non sa “come gridare o ribellarmi/ come lamentarmi o denunciare”, ma solo “sfinirmi in silenziotrova nella penna l’ultima possibilità contro la belva comunista e con un pezzo di carta ingiallita davanti “la incido di un nero irregolare/ piena di parole come officina, catena di montaggio,/ macchina, libretto di lavoro, straordinari, salari”.

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Al culto del lavoro tipico della Sinistra, egli contrappone il valore totalmente occidentale dell’utilità dell’inutile, la poesia. E lì, tale attività diviene l’estrema rivolta dell’uomo in opposizione al Sistema che lo schiaccia, che lo vuole considerare unicamente come ingranaggio. In un mondo governato dal potere rosso, dove ognuno deve contribuire con i suoi mezzi alla società, Xu Lizhi oppone la lirica come affermazione ultima della gratuità, della volontà di non integrarsi. Da semplice numero di immatricolazione, con cui viene registrato quale operaio, egli si dichiara poeta. Alla mano che realizza la volontà del Governo e dello Stato, egli oppone quella del singolo che è antitesi al Regime, alla società ipostatizzata che annichilisce l’individuo nel meccanismo.

Nei suoi versi si concentra il grande rifiuto, il grido più alto di libertà, il diniego assoluto della follia comunista, la poesia: “Non posso ingoiare altro/ E tutto ciò che ho ingoiato ora rigurgita dalla mia gola/ spandendosi sulla terra dei miei avi/ in un ignominioso poema”.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.

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