Il Detonatore

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MAKINE E LA GIOIA DI ESISTERE OLTRE L’ORRORE DEL SOCIALISMO (di Davide Cavaliere)

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Una certa litania «reazionaria» sostiene che «non ci sono più grandi scrittori». Si tratta, per l’appunto, solo di una monotona filastrocca, smentita dall’esistenza di eccellenti autori capaci di perpetuare la grande letteratura. Uno di questi è, indubbiamente, il romanziere franco-russo Andreï Makine, la cui vita ha già in sé qualcosa di romanzesco. Nato nel 1957 in Siberia, trascorre la giovinezza a Novgorod – la più antica delle città russe – per poi trasferirsi in Francia dove ottiene l’asilo politico. 

A Parigi conduce una vita precaria, non dissimile da quella di altri scrittori del passato, al punto da definire quegli anni come «una disperazione permanente». Riesce, non senza fatica, a farsi riconoscere per il suo talento, fino a essere eletto, nel 2016, a trent’anni dal suo arrivo in Francia, membro dell’Académie française.

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Autore di veri e propri capolavori, tra i quali il più noto è Il testamento francese, Makine ha infuso nei suoi libri la sua duplice identità di russo e di europeo, narrando le vicende di esuli e di esiliati, come gli indimenticabili Olga Arbélina e Jacques Dorme. Tra le opere dello scrittore, spicca, per poeticità e bellezza, Confessioni di un alfiere decaduto.

Il libro in questione è la fluviale confessione di un uomo che, rivolgendosi all’amico di tutta una vita, rievoca la loro infanzia in una Russia popolare e segreta, che è stata capace di conservare la sua umanità in mezzo alle tragedie di un secolo, il Novecento, segnato da guerre e terrore. Makine non racconta il mondo di Stalin né quello dei dissidenti sovietici, preferisce invece quello della gente comune, le cui traversie quotidiane assumono un carattere epico, anche grazie a una prosa solida ed elegante.

Il narratore è figlio di un cecchino che ha perso le gambe durante la Seconda Guerra Mondiale, il suo amico di un sopravvissuto ai campi di sterminio. I loro padri sono un’anima che abita in due corpi ma, talvolta, quando il secondo si carica il primo sulle spalle, diventano anche un’unica sagoma. Vivono in un complesso residenziale che chiamano «il triangolo», composto da tre edifici rossi, tra i quali spiccano due luoghi ben distinti: la «crepa» – una «sorta di pozza dai bordi prominenti e coperti di piante che non nascevano da nessun’altra parte. Fiorellini dalla luminescenza bluastra del neon, appollaiati su steli succosi e appiccicosi» – e il «Passaggio», situato «oltre quegli odori e quella turbolenza quotidiana. Dava a nord-ovest, proprio là dove nell’ora dei freddi tramonti si costruivano dei veri palazzi di nuvole. Le sere d’estate erano chiare, lunghe, e la sontuosità marmorizzata e vaporosa del cielo nordico non passava». Sembra di vedere le lunghe sequenze naturalistiche di un film di Tarkovskij.

I due fanciulli, mentre si svagano con l’ideologia comunista, che per loro si riassume in marce festose e canzoni patriottiche, tentano di penetrare il passato ascoso dei loro padri e delle loro madri («Incominciai allora, quasi inconsciamente, a comporre una sorta di affresco, il mosaico di quella giovinezza che mi affascinava. Giorno dopo giorno, aggiungevo i frammenti dei suoi racconti, delle confidenze involontarie, dei dettagli che si rivelavano a seconda delle chiacchierate di mia madre»). I ragazzi vivono immersi nel mito della «Grande guerra patriottica» e dell’orizzonte radioso del socialismo, che si incarna nella figura del cavaliere rosso morente («Potevamo immaginare una morte più bella dell’essere distesi nella steppa notturna sotto lo sguardo di un cavallo fedele, sguardo intriso di una compassione più che umana?»). Ma al di là della propaganda ci sono i sogni individuali, il destino dei singoli, le ragioni private che non marciano al ritmo della Storia.

Un giorno, durante una parata della gioventù comunista di fronte ad alti e scomposti dignitari del Partito, i due ragazzi non smettono di suonare la tromba e far rullare il tamburo al segnale prestabilito, ma continuano a produrre suoni, mossi da una inaspettata vitalità, sorta dalla consapevolezza di essere figli di sopravvissuti: «Il ruggito della tromba e la grandine del tamburo celebravano ogni estate il tiro che i due uomini avevano giocato alle leggi della probabilità! […] No, i nostri canti non erano ipocriti. Perché noi cantavamo la nostra gioia di vivere. La gioia di nascere contro tutte le probabilità calcolate dalla gente di buon senso, a dispetto di tutte le guerre inventate dai fabbricanti di Storia».

I russi di Makine, semplici, poveri e dignitosi, ricordano i contadini veneti raccontati da Ferdinando Camon, figli della più universale delle culture, quella degli umili abitanti della terra. Sono uomini buoni, che se fanno del male non è per volontà di ferire, ma perché costretti da supreme circostanze. Dice il narratore di suo padre, il cecchino ormai mutilato, che romba per strade polverose a bordo della sua invalidka: «Mio padre era un uomo della terra. Aveva sempre detestato la caccia, avendo visto, un giorno, una lepre ferita verso cui un cacciatore si dirigeva per finirla. Aveva sentito l’orribile urlo della bestiola, aveva visto i suoi occhi pieni di lacrime vere… Ma si viveva in una ‘fortezza assediata del socialismo’ e ogni cittadino doveva saper tirare con precisione».

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I giovani amici, come accade spesso in queste storie, si separeranno per condurre due vite diverse, ma vissute nella nostalgia di quel passato festoso nonostante le sue reticenze e l’ombra di antiche e nuove paure.

Makine, con questa cronaca di amore e amicizia in un mondo lontano e in gran parte scomparso, intende raccontarci la gioia dell’essere vivi. Non la felicità, condizione euforica e precaria, bensì la gioia che fiorisce nel cuore degli uomini che conoscono il mondo coi suoi orrori e le sue solitudini, ma non per questo smettono di amarlo e ammirarlo. La gioia, una volta imparata, «potrà fluire ovunque. Purché ci sia un pezzo di cielo sopra le nostre teste».

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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