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BORIS NEMTSOV, LO SCRITTORE ANTISOVIETICO CONTRARIO A PUTIN (di Davide Cavaliere)

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Boris Nemtsov, figura di spicco della politica russa post-sovietica e critico mordace del presidente Vladimir Putin, venne ucciso con un colpo di pistola, a pochi passi dal Cremlino, nella tarda serata del 27 febbraio 2015. Fisico di formazione, la carriera politica di Nemtsov decollò negli anni ’90. Fedelissimo di Boris Eltsin, divenne col tempo una delle voci che più fortemente condannavano la brusca svolta autoritaria e militarista della Russia contemporanea. La sua figura è ancora largamente ignorata in Italia, dove si discute di politica russa come se, non solo Nemtsov, ma pure Stanislav Markelov, Vladimir Bukovskij o Arkadi Vaksberg non fossero mai esistiti.

Nemtsov, uomo di notevole cultura, fu autore di numerosi libri di denuncia del sistema criminale di Putin e dei suoi sodali, quali Medvedev e Kadyrov. I suoi testi, pubblicati in Italia dalla casa editrice Spirali, sono pressoché irreperibili. Di particolare rilevanza risulta il libro-intervista Disastro Putin. Libertà e democrazia in Russia (2009). In un intenso dialogo con il prof. Armando Verdiglione, Nemtsov prende di petto i principali nodi della politica russa del nostro tempo e fa luce su alcuni aspetti della sua vita privata, come le origini ebraiche.

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Figlio di un padre «per metà ebreo» e di una madre ebrea, racconta di essere stato battezzato in segreto, quando era bambino, dalla nonna, «l’unica russa» della famiglia. Il padre, grazie al fatto di non essere totalmente ebreo, si salvò dal celebre «Complotto dei medici» denunciato da Stalin, che portò all’arresto e all’uccisione di numerosi sovietici di fede semita. Nemtsov ricorda come, al tempo dell’URSS, «per gli ebrei, l’ingresso alle università era limitato ed esistevano quote anche per l’iscrizione al partito».

Spostandosi su temi di più stretta attualità, l’autore elabora una serrata analisi critica del putinismo, mortifera mescolanza di avidità, autocommiserazione storica sul destino della Russia e sfacciato imperialismo a danno dei vicini: «Credevo che “risollevarsi” significasse per la Russia meno corruzione, scomparsa del nonnismo, un esercito di professionisti, non più paura, ma rispetto da parte del mondo. Per Putin invece significa occupare i territori limitrofi, in omaggio alla tradizione che ci vuole conquistatori di quello che ci circonda, anche se non ne abbiamo bisogno».

Nemtsov, a differenza di tanti analisti nostrani, ha una visione realistica della politica russa e dei sentimenti da cui essa deriva. La nostalgia per il temuto impero sovietico alimenta un revanscismo dagli esiti nefasti. L’intervistato profetizza l’attuale situazione della Federazione: «quando la Russia si troverà accerchiata da nemici, nel paese le reazioni s’intensificheranno e aumenterà la xenofobia, l’odio nei confronti di tutti gli altri abitanti del pianeta. E si rafforzeranno anche le tendenze autoritarie e dittatoriali. Dal punto di vista delle dinamiche interne, sono esiti negativi, vantaggiosi per Putin, perché odia la democrazia, odia le critiche e odia la libertà, ma nefasti per la Russia, perché significano corruzione. La chiusura che Putin ha costruito significa corruzione».

Attento osservatore del farsi del mondo, Nemtsov prevede anche il futuro, ormai sempre più presente, inglobamento della Russia da parte della Cina, che ridurrà Mosca a stato vassallo, a mero fornitore di materie prime («Per la Russia, la principale minaccia è la Cina, e non perché i cinesi siano aggressivi, ma perché hanno bisogno di gas e di petrolio. Per loro sono di vitale importanza. E quando si tratterà di decidere se lasciare estinguere la civiltà cinese oppure farla sopravvivere incorporando la Siberia, penso che i cinesi risolveranno la questione nel modo più ovvio. La Cina, perciò, è una faccenda seria»).

Il ritratto di Putin è impietoso e caustico, viene definito «un sovietico pieno di complessi», che «vive fondamentalmente secondo nozioni e non secondo regole logiche». Qui, il giudizio di Nemtsov, ricalca quello di Anna Politkovskaja. Il dittatore russo è un residuato bellico dell’era sovietica, un čekista scampato al crollo del muro. Il putinismo si regge sulla violenza e sulle ricchezze accumulate dagli oligarchi vicini al tiranno, per questo il dissidente crede che un sempre maggiore isolamento della Russia determinerà il crollo del regime. Si tratta di un ragionamento valido, forse, di oltre dieci anni fa. Da allora, Putin ha via via eliminato tutti i suoi oppositori e consolidato il suo dominio.

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Un potere favorito dall’acquiescenza delle democrazie occidentali, ciniche consumatrici delle risorse naturali russe: «La logica che oggi guida sia Putin sia Medvedev è quella della dipendenza di italiani, tedeschi e francesi dal gas russo. Di che cosa parlano Silvio Berlusconi, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy quando incontrano Putin? Berlusconi del South Stream, la Merkel del Nord Stream e Sarkozy di tutti e due […] pensano che gli europei non abbiano alternative, che dipendano dal gas e dal petrolio russi». 

La Russia di Putin, pallida erede dell’Unione Sovietica, è, tra le altre cose, un prodotto delle illusioni di un Occidente convinto che «mercato» e «diplomazia» fossero sufficienti per avviare un processo di democratizzazione. Le parole di Nemtsov e l’attuale aggressione dell’Ucraina, ci dicono quanto sia sbagliato blandire i dittatori, non prestare orecchio ai dissidenti, non preferire la libertà all’interesse economico immediato. Alla fine, ad andare a braccetto coi tiranni, si rischia di perdere tutto, a cominciare da quel benessere economico ottenuto chiudendo gli occhi sui crimini e sui delitti.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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