Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

I TACCUINI DI PETER HANDKE E L’ARTE COME FORMA DI RELIGIONE (di Davide Cavaliere)

Peter Handke è uno dei pochi scrittori contemporanei – gli altri sono Sebald e Powers – a cui è riuscito di perpetuare la letteratura senza ricorrere strettamente alla forma del romanzo. Con ciò che ha chiamato “saggio” (Saggio sulla stanchezza, Saggio sul cercatore di funghi, Saggio sul luogo tranquillo), ma anche attraverso libri assolutamente inclassificabili come Nei colori del giorno o La mia giornata nell’altra terra, ha sperimentato una dimensione narrativa nuova, dove racconto, riflessione e diario intimo trovano una sintesi di rara perfezione e bellezza.

In Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi, intelligentemente stampato dalle Edizioni Settecolori, lo scrittore austro-sloveno trasforma i suoi taccuini, costituiti da incantevoli aforismi e ombrosi disegni, in altrettanti strumenti di letteratura. Leggere quei frammenti di pensiero, magari al crepuscolo, col buio che comincia a impregnare ogni cosa, è una delle esperienze più profondamente inquietanti che un lettore possa avere. Alla fine dei diari, ci si sente vicini il più possibile alla letteratura intesa come “abitare” un’altra persona. L’intimità dell’autore, i suoi dolori, sono inusitatamente fecondi. 

Peter Handke, Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi, Edizioni Settecolori.

Si consideri la forza della seguente impressione: “Aggettivo per lo stormire degli alberi: «insuperabile»”. Handke sembra voler stanare e catturare l’epifania della natura, la sua lentezza, il tempo circolare delle stagioni, quella durata che costituisce uno dei temi ricorrenti della sua opera. Le schegge letterarie che compongono il libro catturano il mondo, esterno e interno, per farlo vibrare rapidamente sul foglio. Dopo di che, il silenzio, sotto forma di vuoto sulla pagina, s’impone con delicatezza. 

Handke medita spesso sulle “ore sante” della sua infanzia in Carinzia, facendo emergere un tempo scomparso e una natura magica seppur doma: “Quanto tempo è passato da quando, in Alta Austria, ho visto l’uomo della domenica camminare sul ciglio della strada maestra vestito di nero, con la camicia bianca, le gambe dei pantaloni che svolazzavano. Quanto tempo è passato da quando camminavo tenendo la mano del nonno nella luce del primo mattino, guardando le gocce di pioggia grosse come monete nella polvere del sentiero di campagna a Stara Vas”

La periferia dello scrittore, periferia anche “umana”, volendo richiamarsi alle ragioni dell’attribuzione del premio Nobel, è un remoto, spaziale e temporale, innalzato all’eterno per eccedenza di radicamento. I riti e i misteri della provincia, altro modo per dire “periferia”, sono evocati con grazia: “«Mistero della fede» (dopo la consacrazione, la transustanziazione) e, compreso in esso, il mistero del lasciare andare; e in più l’immagine, ancora per un bel po’, dopo la messa con la consacrazione e la comunione, del bambino che se ne va per la strada domenicale del villaggio, nella nebbia, verso casa, ancora a mani giunte, come in chiesa per tutto il tempo prima”.

Handke, come tutti i grandi della letteratura germanofona dei nostri tempi, quali Sebald, Müller e Petrowskaja, è debitore di Thomas Bernhard, almeno nel fraseggio, non certo nelle strigliate all’Austria, alla Chiesa, ad Anton Bruckner. Tutt’altro, “Dem lieben Gott”, il “buon Dio” a cui Bruckner dedicava la sua nona e struggente sinfonia, veglia sul redattore dei taccuini: “Il tempo diventa un bene; il tempo fa bene; il tempo diventa il buon Dio – il «Dio che era buono» (come al tempo di Lento ritorno a casa)”

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Le fulminee riflessioni di Handke incarnano una interiorità raccolta, che respira la religione nell’aria natìa e capisce la dissonanza del mondo moderno per mezzo di un doloroso quanto candido sentimento del silenzio e della lentezza. Una religiosità quasi pietista, simile a quella dell’amato Goethe, che anche in queste pagine lo distingue dalla mediocre Elfriede Jelinek

Per Handke, infatti, l’arte e la poesia sono “forme parallele di religione”, al punto da considerare l’espressione «arte religiosa» come “una tautologia”. Il linguaggio, che lo scrittore sa usare con sapiente eleganza, altro non sarebbe che Dio stesso, il lógos giovanneo collocato all’origine dell’Essere. 

Le pagine dei diari, non dissimilmente da altre, sono scandite da visioni, lampi di genio e improbabili segni profetici, che immergono il lettore in un’atmosfera di mistica tensione e lo pongono sotto il segno di numerose rivelazioni. Non a caso, forse, i disegni che accompagnano le parole ricordino le opere di Paul Klee, il più mistico e angelico dei pittori moderni. L’esultanza dei colori nelle tele di quest’ultimo ricorda la luminescenza della frasi di Handke: “Di sera: «Camminare fino alla prima stella». Di mattina: stare seduti finché i fiori di salvia sono irradiati dal primo sole mattutino”. Nel leggere frasi come questa, ci si sente cullati, immersi nell’atmosfera tenue e setosa del pittore svizzero. 

Lo scrittore di Griffen è promeneur solitario, meditabondo, sognatore, morbidamente malinconico. Nulla sfugge alla sua pupilla discreta e meravigliata: “La nera proboscide di un riccio che al mattino scava in un mucchio di foglie di tiglio. E intanto il fruscio dei fiori secchi”. Come per taluni compositori di haiku, la passeggiata (ginko) permette di cogliere tutte le manifestazioni del mondo, soprattutto sonore. Scrivere, dopotutto, è un modo alternativo di comporre musica, di dare suono all’inudibile: “Un suono «inaudito»: lo stelo di un dente di leone che cozza contro il vetro della finestra”

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Handke, anche nei suoi taccuini, assolve al più alto compito dell’arte, ossia nominare le persone e le cose, chiamarle con il loro nome e farlo vis-à-vis. Sono pagine che celebrano la giustizia (e la gioia) delle forme. Dirle in modo preciso al fine di portarle con sé, ricordarle, come immagini, colori, suoni e diventare responsabili nei loro confronti: “Bellezza e voto: da questo, dal fare un voto, riconosci la veridicità del bello, di quello che si prende in carico ciò che è più bello e rispetto a esso responsabilizza anche a te”.

Handke, forse involontariamente, risponde a una letteratura che, abbandonatasi al solecismo, ha dimenticato il proprio potere divino: dare forma, una bella forma, alle cose.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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