Il Detonatore

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TRA MASCHERINE E LOCKDOWN, “MELMA ROSSA” DI FERNANDA TRÍAS È UNA DISTOPIA DI INQUIETANTE REALISMO (di Marco Pianti)

La distopia è tale finchè non diventa realtà, finchè non si materializza in qualcosa di ordinario e finisce suo malgrado per dare rappresentazione al peggiore degli incubi. Allora ci si accorge della prossimità della catastrofe, di quanto il terrore sia familiare ai nostri gesti più inconsapevoli e disinvolti. Così, per effetto dello stesso sortilegio, gli uomini diventano eroi per cui erigere statue. Statue che ne iscrivono il fallimento nella materia viva e nel tempo storico. 

In questo caso, quello di Melma Rosa, romanzo di Fernanda Trías, edito da Sur (2022), gli eroi sono i sommozzatori che muoiono nel tentativo di sondare il fondale del fiume colonizzato dalle alghe aliene da cui esalano nubi malsane che colorano il cielo di fosforescenze radioattive. La materia tossica lo tinge di rosa e si propaga per merito di venti malevoli. Gli abitanti della costa vivono reclusi nelle loro abitazioni, incollati ai televisori, dove sono incessantemente trasmesse previsioni metereologiche e salotti di opinionisti che, a turno, minimizzano o drammatizzano l’entità del pericolo. 

La distopia di Fernanda Trías, Melma rossa, Sur, 2022.

Intorno ai sommozzatori imolati nell’abisso radioattivo, c’è una massa isterica di uomini rintanati nei loculi domestici al riparo dal vento, oppure intenti a preparare le valigie per spostarsi nell’entroterra. Come i genitori di Mauro, bambino affetto dalla sindrome di Prader Willi e perciò insaziabile, un fantoccio flaccido incapace di placare la fame. Mauro viene affidato alle cure della protagonista del romanzo, a cui i ricchi genitori rimettono la responsabilità di misurarsi con la malattia del figlio. Il bambino ingurgita quantità colossali di cibo, e quando non riesce ad acciuffare nessun alimento commestibile, mangia qualsiasi cosa gli capiti tra le mani. Questo porta a immaginare un unico scenario possibile come finale, per lui. Sembra infatti condannato a divorare se stesso

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Ciò permette alla protagonista del romanzo, una donna ancora giovane, impegnata a fare i conti con la memoria e con la propria incapacità di recidere i fili che la legano al passato, di vedere, come un’immagine riflessa, ogni sua insicurezza, ogni fragilità, e le suggerisce le coordinate del suo inevitabile destino: la paralisi. L’incapacità di affrontare una madre cinica e delusa, l’impossibilità di voltare le spalle a Max, suo amore giovanile, ricoverato nel reparto cronici del policlinico, come testimonianza vivente della possibilità di farla franca, come speranza incarnata contro il morbo che terrorizza la popolazione. L’uomo condivide la stanza d’ospedale con altri due sopravvissuti, scampati alla naturale evoluzione della malattia che si presenta inizialmente come un’influenza e finisce per squamare e scorticare i malati, portandoli alla morte, o peggio ancora, alla pazzia.

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Solo un taglio netto, furioso, irreversibile, può scuoterci dall’impasse, dal vicolo cieco delle scelte condizionate dal senso di colpa e dalla paura. Un taglio netto che è un gesto semplice e necessario: basterebbe voltare le spalle a Max, al porto da cui esalano i fumi del male, da una madre spietata e dal mostro insaziabile. E invece la protagonista, incapace di scegliere, di immergersi nell’oblio, si aggrappa alla sua collezione di mostri, spaventosi è vero, ma pur sempre familiari, fatalmente essenziali. La città è popolata da spettri. Fantasmi di tassisti clandestini che conducono i clienti alla ricerca di venditori ambulanti, altri spettri, che si aggiungono a quelli che si agitano nelle coscienze.

Melma Rosa sarebbe un romanzo distopico, se non raccontasse scene a cui siamo ormai abituati. L’isteria di massa, le violente prescrizioni del Governo, incapace di fornire spiegazioni, i volti occultati da mascherine, schermi protettori, che nascondono le facce, disumanizzando uomini e donne già stremati che si muovono nelle terre aride di confine della disperazione. I genitori di Mauro, due ricchi borghesi, trasferitisi nell’entroterra, dove sorgono nuove città, per ospitare masse di nuovi colonizzatori, ci propongono, per mezzo del loro contegno ipocrita, un’assioma doloroso, come una ferita: essere un mostro è un destino persino eroico, ma generare un mostro è una condanna

Marco Pianti

Per contattare l’autore: marco_pianti@yahoo.com

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