Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

PERCHE’ NON NASCE UN NAPOLEONE (di Franco Marino)

Oggi sono duecento anni dalla morte di Napoleone, almeno stando alle cronache e a quanto Manzoni vergò nel suo celeberrimo “Cinque Maggio”. Dico “stando alle cronache” perchè in realtà, forse morì qualche giorno prima. Ma sono particolari senza alcuna importanza.
Nè avrebbe più di tanto senso celebrarne la memoria esattamente duecento anni dopo e non l’anno scorso o l’anno prossimo – lo hanno già fatto e lo faranno persone ben più autorevoli di me – se non fosse per un articolo che ho letto su Repubblica qualche giorno fa, all’approssimarsi di questa ricorrenza, circa il perchè non nascano più uomini di grande valore.
Mentre non saprei cosa dire su Napoleone, a parte accodarmi alle celebrazioni o associarmi alle tavole rotonde sulle sue innovazioni e sul suo ruolo storico, la domanda di Repubblica, invece, chiama molte risposte. La prima è che gli uomini di grande valore nascono da situazioni così gravi da costringerli a dover mettersi alla prova. E’ in momenti come questi che si vede chi è destinato a sopravvivere e chi no. Di fronte alla tremenda diagnosi di un cancro, senza voler abbracciare la retorica di chi dice “Ha sconfitto il cancro” oppure “ha lottato duramente” (come se chi morisse non avesse provato con tutto se stesso a farcela) sicuramente chi sopravvive sviluppa un altro modo di leggere le cose e, normalmente, dopo il comprensibile sconcerto iniziale, il malato reagisce cambiando le proprie prospettive di vita e diventando letteralmente un altro. Almeno fin quando non gli passa la paura.

Analogamente, i grandi eroi, i grandi statisti, si vedono nel momento in cui vi è reale necessità della loro presenza. L’assenza degli uni e degli altri deriva forse dalla contestuale ancorchè illusoria assenza di emergenze. E il grosso guaio è che, in questi decenni, molti si sono illusi che queste necessità e quelle emergenze non sarebbero mai più tornate. Non a caso, un grandissimo storico americano di origini giapponesi, Francis Fukuyama disse che la storia era finita.
Purtroppo, proprio ciò che ci sta accadendo in questi anni, dimostra che Fukuyama si era sbagliato. La situazione economica dei Paesi sviluppati è preoccupante. Sono da compiangere i quarantenni ma soprattutto i loro figli che erediteranno un mondo così confuso da doverlo ripensare. E il caso più drammatico, fra le grandi nazioni, forse è proprio quello dell’Italia, perché in assoluto è quella che, tra debiti e pacifismi, ha spinto più lontano di altri il modello socio-economico di moda alla fine del secolo scorso quando l’umanità, seguendo i pensieri di Francis Fukuyama sembrò aver ritrovato il Paradiso Terrestre. Quel professore pensava che l’umanità avesse raggiunto una tale, comoda stabilità, che forse non si sarebbe più modificata.
Certamente, non era nè uno stupido nè un sognatore. Se non immaginava sviluppi del socialismo reale e non vedeva pericoli di guerre, non era certo perchè le nazioni avessero smesso di guardarsi in cagnesco – figuriamoci – ma perché il mondo era ancora così scottato dalle due Guerre Mondiali da guardare con sospetto chiunque rivendicasse – chessò – l’Istria perduta, l’Alsazia, le colonie sottratte e perchè il ricordo di quei modelli socioeconomici – revanscismo e socialismo reale – erano così freschi da indurre alla diffidenza chiunque in fondo contava che il nuovo benessere sarebbe durato in eterno. Insomma, nel 1992 sembrava vero che il nostro fosse il migliore dei mondi possibili, come sosteneva Leibniz. Non nel senso che sia perfetto, ma nel senso che le altre ipotesi fossero peggiori.

Purtroppo, la crisi mondiale del 2008 dimostrò la fragilità di quel colosso con i piedi d’argilla e con la pandemia covid quei piedi hanno cominciato a sprofondare nelle sabbie mobili delle proprie contraddizioni. Se finora non abbiamo ancora visto i reali effetti di questo sprofondamento è solo perchè gli Stati Uniti, ossia i proprietari dell’Occidente, stanno andando avanti a furia di toppe. Ma le toppe non corrispondono ad avere un vestito nuovo. E infatti oggi, con l’attuale pandemia, siamo senza difese. Soprattutto perché la stretta interconnessione di tutti i Paesi in un pianeta sovrappopolato e la facilità degli spostamenti, trasformano una rumorosa ma modesta tropea in un tornado di dimensioni mondiali. E fin qui l’umanità non avrebbe colpe. Il Titanic non fu certo colpevole di incocciare in un iceberg ma la sua inaffondabilità non aveva previsto che potesse essere aperto lungo tutta una fiancata come una scatola di sardine.

Nessuno ha il coraggio di dire che il problema non è affrontabile perché il nostro modello è tanto dorato quanto fragile. Si è creduto che le imprese, obbligate a fermarsi per due o tre mesi, potessero avere la forza di ripartire. Ed è stato proprio per questo che l’unica idea venuta in mente a tutti i governi è stata quella di chiudere in casa miliardi di persone per poi fingere di aiutare i loro cittadini, distribuendo denaro a pioggia, per migliaia di miliardi di dollari. Dimenticando che uno dei più grandi pericoli che corre l’umanità è che il grande schema Ponzi su cui si regge l’economia mondiale crolli non appena qualcuno dirà che il re è nudo, così come l’originale si nutriva vantando una quantità di denaro enormemente più grande dei francobolli che il truffatore Charles Ponzi vantava di possedere. E crollò non appena qualcuno disse che in circolazione ve ne fossero solo trentamila.
A suo tempo non lessi il libro di Fukuyama perché sono pigro, perchè non avevo ancora un’età tale da occuparmi di certe cose con cognizione e perché, comunque, già dal titolo reputavo la sua tesi sbagliata. Ma ora, quasi un trentennio dopo, vedo dove stava il punto di rottura. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, il modello politico-sociale del mondo, imperniato su un pacifismo mondiale con l’economia di mercato – che era in realtà soltanto il dominio americano sull’Occidente e un’economia centrale come quella americana e tanti stati clienti a ruotarle attorno – sembrava l’unico che veramente funzionasse, con un costante e conseguente aumento del prodotto interno lordo che sembrava infinito. Chiunque osasse discutere che mentre il PIL saliva, le materie prime al contrario crollavano, veniva appellato come tricheco criticone, come cassandra. Il problema è che trattandosi di una tesi sconclusionata, bastava trovare il punto di rottura che la smutandasse.
Pensiamo alle famiglie dei grandi capitani d’industria. Il capostipite crea l’impresa che lo rende miliardario. Gode di ottima salute, ha una moglie bella e innamorata, i suoi figli vengono su normalmente. Studiano un po’, fanno sport, hanno amici. Certo, spendono molto di più dei loro coetanei e magari gli offrono pure la cena ma se quel tipo di vita è sostenibile perchè si guadagna più di quanto si spende, perché non dovrebbero godersela?
Il problema è che la situazione ha un tallone d’Achille: mentre il capostipite, che ha conosciuto i morsi della fame o più semplicemente la frustrazione di una povertà dignitosa ma comunque lontana dalla dolce vita, sa che la macchina funziona solo se lui va ogni giorno al lavoro, i figli sono nati trovando questa situazione stabile e credono in buona fede che vada avanti da sola e sia per così dire naturale e indistruttibile. Era esattamente ciò che divideva nelle tante discussioni i nostri padri che, vissuti in un’epoca prospera e pacifica, erano convinti che quelle dei nostri nonni, cresciuti in un’epoca povera e devastata dalla seconda guerra mondiale, fossero le elucubrazioni di vecchi gufi che ci ammonivano circa l’importanza del servizio militare, di non spendere più di quanto si guadagna, di non dare per scontati certi valori.
E infatti è esperienza corrente che il capostipite si arricchisce, il figlio (quando va bene) ne continua l’opera, e i nipoti si riducono in miseria.

Ma è stata l’indiscutibilità del modello ammirato da Fukuyama a creare l’illusione che si potesse andare avanti così. Che si potesse rinunciare a sottoporsi ad un anno di sacrifici in nome di un paese da dover, ipoteticamente, difendere. Tanto ci avrebbe pensato l’America al posto nostro. Che si potessero fare debiti all’infinito. Che recitare la professione di fede nei confronti della democrazia (una e indivisibile) provocasse come conseguenza che tutti saremmo rimasti democratici. Che pur nella giusta deplorazione di certi aspiranti superuomini, si dovesse demonizzare qualsiasi Napoleone che volesse assumersi il compito di salvare l’umanità. Il tutto naturalmente con una tassazione sempre più oppressiva, e uno Stato mostruosamente grande ed invadente.
E quando i soldi hanno cominciato a scarseggiare non si è pensato a ridurre le spese (quale figlio di miliardario ci penserebbe mai?) ma si sono fatti debiti. Che nel caso dell’Italia sono di tali proporzioni che la gente non li capisce neppure. Dimenticando che si può passare da signori della grande villa con piscina a senza tetto sotto i ponti. E nell’arco di pochissimi anni, se non addirittura mesi.


Forse l’umanità è vittima della brevità della vita. Se invece di vivere – quando va bene – ottant’anni, noi vivessimo qualche secolo come le tartarughe, forse avremmo il tempo di imparare dai nostri errori. Forse non troveremmo “naturale” qualunque situazione positiva, senza curarci di chiederci che cosa seriamente la tiene in piedi.
Il grande imprenditore che crea una grande impresa informatica che si occupa di sviluppo di applicazioni per il web destinate più ad un pubblico di persone nate col personal computer in mano, non disprezza le app mobile sviluppate per i fruitori di smartphone.
Viceversa, chi è nato in una situazione già consolidata non si preoccupa delle novità. Non è pronto a cambiare nulla della sua vita. Non è disposto a lottare con tutte le proprie forze per difenderla.
Analogamente, poiché noi non siamo disposti a tagliare nessuna spesa e nessun lusso, significa che stiamo aspettando che sia la realtà a riportarci con i piedi per terra. Ed è forse questo il vero motivo per cui non è ancora nato un Napoleone Bonaparte. Perchè quel generale corso tanto spaccone quanto abile – una sorta di Mourinho dell’arte militare – non era nato tra agi e stravizi bensì figlio di un nobile decaduto della piccola borghesia corsa, non troppo povero da impedirgli di studiare ma certamente non ricco a sufficienza da garantirgli quel tenore di vita che il figliuolo si assicurò.

Napoleone aveva la fame dell’ambizione, che è capace di prendere un ometto, come si dice dalle mie parti, corto e male incavato (anche se a dire la verità, col suo dignitoso 1,68, altezza media a quel tempo, era meno basso di quanto hanno sempre narrato) e portarlo sul tetto del mondo. Quella stessa fame che oggi, non essendoci, porta un’intera umanità ad aspettare che i problemi si risolvano da soli.
Magari mentre incassano il reddito di cittadinanza e pendono dalle labbra del primo imbecille mediatico che, in altre epoche, sarebbe stato messo a tacere dalle risate degli astanti.
O, peggio ancora, si affidano alle velleità più o meno truffaldine di qualche finto napoleone.

FRANCO MARINO

2 commenti su “PERCHE’ NON NASCE UN NAPOLEONE (di Franco Marino)

  1. Hai perfettamente ragione…manca la fame..ma di tutto. E di questo paghiamo pegno..
    Ah dimenticavo..I nostri cari (in senso economico).. politici… Dovrebbero andare a scuola…e imparare dai vari Napoleone ecc.

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