Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

UNA NUOVA VERSIONE DELL’OPERA DI KACZYNSKI, MA NON LA SOLITA (Emmanuele Pilia intervistato da Matteo Fais)

Ci sono autori con cui è comunque giusto confrontarsi, a prescindere da come la si pensi sul loro conto – finanche tra quelli ascrivibili alla Sinistra. Persino quando il loro pensiero non è condiviso, vi si trovano spesso interessanti suggestioni o spunti di riflessione.

Quanto detto valga a maggior ragione nel caso di Theodore John Kaczynski, l’Unabomber, tra i massimi ricercati dell’FBI nella storia, recentemente deceduto e tornato, per così dire, di gran moda, a seguito di alcuni sceneggiati proposti dalle più famose piattaforme di streaming e un paio film. Tanto più che l’attentatore-filosofo è tutto fuorché il solito postmarxista. Si tratta semmai di un soggetto sul quale hanno confluito diversissime influenze, ma a cui praticamente nessun altro pensatore sembra essere assimilabile per prossimità ideologica.

L’occasione è una nuova versione di La società industriale e il suo futuro, pubblicata da D Editore, che viene ad aggiungersi a diverse uscite negli ultimi anni. Quella tradotta e curata da Emmanuele J. Pilia e Mattia Pinna promette alcune aggiunte e ulteriori importanti precisazioni, frutto della stessa revisione di Kaczynski negli anni trascorsi in carcere. Siamo andati pertanto a sentire Pilia, dopo aver preso visione del testo.

Perché ritradurre T.J. Kaczynski? Cosa possiede la tua versione che manca alle altre? Ti prego, sii onesto, all’occorrenza brutale.

Ti rispondo a entrambe le domande, collegandole. Per quanto concerne la prima, il motivo è che si tratta di un documento che oggi acquista una storicità impossibile da ignorare, sia – in generale – dal punto di vista intellettuale, che – in particolare –  dal punto di vista libertario. Non possiamo negare che il tono profetico di Kaczynski abbia spaventato molto le ali più materialiste del movimento libertario, eppure non si può far finta che il contenuto del suo manifesto, ma anche dei saggi e delle integrazioni successive, siano semplicemente i deliri di un folle. Per quanto non riesca a sentirmi completamente d’accordo con ogni suo passaggio, non posso negare il fascino per l’intera vicenda umana che lo riguarda, come per le tesi da lui avanzate. Per questo motivo, e arrivo alla seconda domanda, abbiamo sentito il bisogno di pubblicarne un’edizione che fornisse un quadro critico, insieme ad alcuni saggi integrativi che nel tempo lo stesso Kaczynski ha scritto. Con gli anni, l’autore ha limato il suo pensiero, lo ha raffinato, dandogli un’evoluzione, e di questo l’audience italiana non ha ahimè accortezza anche a causa di chi ci ha preceduto nella promozione del lavoro in questione. Quindi, quello che abbiamo fatto è stato di dar vita a una traduzione che tenesse conto delle fonti e dell’intero corpus finora rilasciato, andando a cercare gli originali e, soprattutto, inquadrando il tutto entro una cornice che spiegasse al pubblico italiano i punti per lui più oscuri.

Una delle scelte più forti e, non ti nascondo, a mio modestissimo parere, contestabili è l’idea di tradurre Leftism con Liberale. Di solito si usa tale versione per indicare i Liberal, cioè la Sinistra progressista concentrata sulle battaglie per i diritti civili. Invero costoro sono molto poco liberali, in senso stretto, quando si tratta di economia e non risultano, infatti, equiparabili ai liberali di Destra. Peraltro, trovo fuorviante non identificarli come Sinistra o distinguerli da questa, essendo che l’unica Sinistra ad avere rilevanza elettorale e posizioni di spicco nei gangli del potere sono loro. Contrapporli a gruppuscoli irrilevanti, mi pare una pignoleria poco utile.

Sì, questa è la scelta più forte che abbiamo preso e capisco perché possa turbarti. D’altra parte, però, dobbiamo contrapporre il pubblico statunitense a quello italiano, farli guardare in faccia e capire quali siano le differenze e le similitudini. Partiamo con il dire che Leftism, come spieghiamo in una nota, non rappresenta chi si sente o si identifica con le tesi politiche radicali di sinistra. Chi aderisce all’anarchia o al marxismo non è un leftist. Quindi, chiunque abbia tradotto in passato “leftism” con “di sinistra” ha, semplicemente, sbagliato. In Italia, l’espressione “sinistra” significa tutto ciò che siede alla sinistra del centro e, in un particolare clima politico come il nostro, questa non può essere identificata semplicemente come “progressista”. La formula più congeniale sarebbe stata quindi qualcosa di simile a “radical chic”. Tra serio e faceto, ho indicato che un’altra possibile traduzione sarebbe potuta essere “veltronismo”, per identificare l’attitudine di educato e lieve progressismo, una tesi normalizzante alle alterità. Ma, in USA, il “liberale di sinistra” è colui che vota il Partito Democratico, esattamente come in Italia, illudendosi di avviarsi verso una scelta razionale e razionalizzante della realtà. Per tali motivi abbiamo ritenuto questa versione calzante con le intenzioni di Kaczynski, che intendeva proprio identificare la falsa coscienza di chi si riconosce in un ipocrita buonismo senza azione, premendo per una stasi tale da non cambiare lo stato di cose attuale.

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Tu torni spesso sulla questione dell’anarchismo sotteso al manifesto. Perché ritieni sia inquadrabile entro tale corrente? Te lo domando perché a me pare che, nel noto pamphlet, vadano a mescolarsi elementi ideologici delle più diverse provenienze, da un generico libertarismo fino alla rivolta esistenziale, passando anche per elementi di conservatorismo non trascurabili. Insomma K. sembra un soggetto non inquadrabile partiticamente e neppure politicamente, quasi un essere a sé stante, in tal senso davvero al di là della Destra e della Sinistra.

Diciamo che condivido la visione dell’Anarchismo senza aggettivi di Fernando Tarrida del Mármol, Errico Malatesta e Gian Piero de Bellis, che vedeva l’anarchia più come un orizzonte da perseguire che alla stregua di una definita lista di precetti, un futuro già scritto, done-for-you. Tale prospettiva è fumosa, sembrano dirci questi personaggi, ma sappiamo più o meno, al contempo, cosa vogliano: la fine dell’oppressione degli uni sugli altri o dei molti sugli altri. Le differenze importano poco: l’anarco-collettivista, l’anarco-comunista, l’anarco-individualista, alla fine, si vorranno bene. Questo è stato troppe volte scambiato come un pacato pacifismo. La realtà è un’altra: l’idea alla base è estremamente pragmatica e si fonda sulla nozione di rivoluzione permanente. Fermo restando che l’orizzonte è lontanissimo, sembrano dirci i nostri, è inutile preoccuparci oggi di come vogliamo scolpire il futuro. Anche perché, per sapere che forma di governo vogliamo domani, dovremmo saper rispondere alla domanda: “Quanti carri armati hai fuori Roma per prendere il potere?”. L’anarchia è una prospettiva, e noi ci incamminiamo verso questa in un percorso ricco di ostacoli. In tal senso, Ted K. non può che essere inquadrato nell’anarco-individualismo di matrice proudhoniana, ossia nell’ideale del volontarismo anarchico che probabilmente ha assorbito da Proudhon più che da Ellul.

Non ritieni che possa essere pericoloso proporre a un pubblico generico idee quali quelle di K.? Volgarmente, si può parlare e studiare uno come lui senza fare al contempo una sottaciuta difesa del terrorismo?

Se fossi incosciente, ti risponderei: “magari”. Scherzi a parte, la realtà è che l’abuso della parola “terrorista” è talmente vaga da aver perso di significato. Basti pensare che si parla di “azioni terroristiche di Ultima Generazione”. Non capiamo che il o la “terrorista” è tale solo in base al nostro punto di vista. Ad esempio, i partigiani italiani, dalla prospettiva dei soldati fascisti, erano terroristi, così come lo è stato Mazzini per il Regio Esercito e similmente dicasi di Che Guevara per gli Statunitensi. Eppure, noi ci sentiamo a disagio a definire i soldati americani come terroristi: perché? Perché il punto di vista dei nostri media è funzionale a una specifica narrazione che noi facciamo nostra. Ma, in questa domanda, tu mi chiedi altro. Rispondendo seriamente, direi: no, non credo ci sarebbero atti emulativi, e sì, così come oggi studiamo l’invasione dell’Iraq o della Libia con distacco storico, lo stesso può essere fatto con il pensiero di Ted Kaczynski. 

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K. dice che “L’azione violenza, l’azione rivoluzionaria, non deve essere fine a sé stessa, ma strumento politico che posta la riflessione sull’ottenimento di un obiettivo”. Mi domando se lui abbia effettivamente portato avanti, al di là delle, diciamo, buone intenzioni, un piano simile. Forse, mi viene da pensare, gli mancava alle spalle un vero e proprio movimento e persone più esperte sul piano tecnico, per riuscirci. Faccio questa riflessione perché, per esempio, nell’ultimo romanzo di Houellebecq, Annientare, vi sono dei terroristi che si ispirano a lui, ma si muovono in modo molto più capillare e impattante, non semplicemente spedendo pacchi bomba a oscuri docenti americani.

Sono dell’idea che Kaczynski, al tempo della sua elaborazione teorica, non avesse ancora sviluppato compiutamente la sua teoria in modo solido, come è riuscito a fare dopo gli anni della prigionia. Lui stesso ammette che i suoi primi tentativi erano immaturi, sia tecnicamente che politicamente. Sebbene noi abbiamo prove circostanziali del fatto che non fosse “solo” (si può pensare che le persone o i collettivi dietro i nomi di Último Reducto e Green Anarchist avessero avuto contatti con Ted Kaczynski), de facto la sua è stata probabilmente un’azione solitaria. Ma lui stesso ne era conscio, tanto è vero che più avanti – ma anche nella lettera con cui chiedeva la pubblicazione del suo manifesto – aveva detto che avrebbe spostato la propria azione dall’uccisione di esseri umani a quella di sabotaggio di complessi industriali. In Colpiscili dove più fa male, saggio che darà il titolo al secondo volume della collezione, Ted è in questo chiaro, arrivando addirittura a descrivere un decalogo del “perfetto rivoluzionario”. In soldoni, anche per “Unabomber”, la violenza senza tattica è inutile.

Questa tua versione di La società industriale e il suo futuro presenta diversi apparati molto interessanti per approfondire il pensiero di K. e le riflessioni contenute nel testo. Devo amaramente ammettere, però, che alcune delle considerazioni ulteriori mosse dall’autore non mi convincono a pieno, come questa: “La più forte opposizione alla violenza, nella nostra società, proviene banalmente dal conformismo e dalle convenzioni sociali, e questo può essere dimostrato dal modo in cui cambia la reazione della società nei confronti della violenza in base alle circostanze in cui viene esercitata. Quando l’azione violenta si svolge con l’approvazione del sistema (nelle guerre, per esempio), la maggior parte delle persone considera la violenza scontata. Eppure, le stesse persone saranno inorridite dalla violenza se questa fosse disapprovata dal sistema”. Mi pare che, per giustificare i suoi atti, si stia, per così dire, arrampicando sugli specchi. In verità, salvo i fanatici, nessuno approva gli stupri sulle donne vietnamite o altre atrocità. Quando lo Stato, che sarà pure il detentore della violenza, si abbandona a gesti troppo estremi, ne parliamo per anni – penso ai casi della Scuola Diaz, come a quello di Stefano Cucchi. 

Sai che invece questa è una delle tesi che mi convincono di più? De facto, quelle che citi (la scuola Diaz e l’assassinio di Stefano Cucchi) sono due eccezioni. L’opinione pubblica disapprova la violenza tanto che, quando il bambino palestinese viene ucciso, dopo aver tirato un sasso, essa ammette: “Beh, se l’era cercata”. E, anche dopo il massacro inaudito e inedito degli ultimi mesi, vediamo in troppe persone un’equidistanza che lascia sgomenti. Perché una violenza è operata da uno Stato, che ne detiene il monopolio, l’altra è inammissibile, perché fuoriesce dal recinto di questo. E, al di là di questi casi eccezionali, sappiamo benissimo che la violenza operata dallo Stato è quasi sempre impunita, mentre quella operata al di fuori dell’azione statale è invece illegittima. Quando parlo di violenza, mi riferisco non solo a bombe o percosse, ma a qualsiasi azione violenta, anche la più blanda: dall’insulto allo sciopero. Non è un caso che l’espressione “passare dalla ragione al torto” è sempre più usata.

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Sempre parlando di violenza, mi lasciano interdetto alcune affermazioni del tipo “La nonviolenza ha senso solo se hai a disposizione un corpo di polizia a proteggerti. In assenza di una polizia di protezione, la nonviolenza è molto vicina al suicidio”. K. auspica la caduta del sistema tecnologico, ma lui stesso ammette che tale crollo porterebbe al caos, a una sorta di ritorno allo stato di natura, tra violenze, tentativi di sopraffazione e orrori vari (“Se vuoi sopravvivere al collasso di questo sistema, faresti meglio ad armarti e prepararti a usare le armi in modo efficiente”). Mi viene a tal proposito da chiedermi: ma, se esiste la certezza di non vivere in pace al di fuori delle strutture, perché mai abbatterle?

Questo lo ammette nel manifesto stesso, nei primi passaggi. Infatti, nel paragrafo §2, lui afferma: “Se il sistema collassa, le conseguenze saranno ugualmente molto dolorose. Ma più il sistema crescerà, più disastrose saranno le conseguenze del suo crollo, il che ci porta ad affermare che se deve collassare, è meglio che accada il prima possibile”. Secondo me, non è un gioco a somma zero. La sua sfida, se vuoi “la sua provocazione”, è quella di interrogarci se siamo disposti ad accettare supinamente il meglio della società industriale, oppure vogliamo ribellarci a esso e alle sue strutture.

Esiste, a tuo avviso, un legame tra la probabile condizione incel di K. e il suo pensiero?

No. So che, in USA, gli incel hanno cercato di appropriarsi di questo personaggio, ma lui si è rifiutato di aderire a questa narrazione, tanto da scrivere un piccolo articolo che non è stato mai editato e che sarà inserito in una futura raccolta. In sintesi il punto è che, dagli Incel, il conflitto viene spostato da quello di classe o di gerarchia a quello di genere, il che è semplicemente assurdo. Nella mente di questi, le donne sono creature privilegiate e vorrebbero farci credere che la loro oppressione sia in realtà una recita per giustificare il “potere riproduttivo” che mantengono su di noi. Questa cosa non ha alcuna correlazione, se non è addirittura in aperto contrasto con il lavoro di Ted K., dato che per lui tutte le forze andrebbero condotte verso la lotta al sistema tecnologico-industriale, e non sparpagliate in varie direzioni, soprattutto se subdolamente usate per mantenere lo status quo.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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