Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

AUGUSTO MONTI, ROMANZIERE BIOGRAFO DELLA NAZIONE (di Davide Cavaliere)

Augusto Monti, «Milite ignoto della letteratura», come amava definirsi, profetizzando l’oblio che avrebbe avvolto la sua opera letteraria e civile, fu il maestro segreto di una generazione d’intellettuali torinesi e, pertanto, antifascisti: Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio, Vittorio Foa e Leone Ginzburg.

Professore di liceo, portatore di una concezione «missionaria» dell’insegnamento appresa dal pedagogista Giuseppe Lombardo-Radice, discepolo di Gaetano Salvemini e dell’«allievo che si fa maestro», vale a dire Piero Gobetti, dunque azionista, estraneo alle opposte Chiese, quella cattolica e quella comunista, avverso tanto al fascismo quanto al malcostume giolittiano, Monti è stato l’autore del «romanzo di formazione» dell’Italia contemporanea: la saga familiare nota con il titolo I Sanssôssí, ovvero «Gli spensierati».

Un’opera in cui rivela il suo grande estro di narratore, dalla scrittura densa e oratoria, ottocentesca eppure moderna, capace di attingere a inesauribili risorse retoriche; rigoroso nella ricostruzione storica e fascinoso nell’invenzione fiabesca, un po’ Esopo e un po’ Manzoni.

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Carlìn, sotto le cui spoglie si cela l’autore, racconta la «storia di Papà», Bartolomeo Monti, detto Bortômlín, nato al termine della sconvolgente epopea napoleonica in un angolo di Piemonte delimitato dal fiume Bormida, all’incrocio tra le province di Cuneo, Asti e Alessandria, e del suo rapporto col figlio, Carlìn per l’appunto, l’ultimo arrivato, destinato a diventare il latore di tutte le speranze e le disillusioni paterne.

Vispo e curioso, il giovane Bortômlín è segnato da quella che lui stesso, in anni più tardi, soleva definire «morba», una singolare affezione dell’animo, a suo dire ereditata dalla famiglia materna e così vivacemente descritta: «sussiego, boria, fasto e grandigia da una parte, ma dall’altra anche signorilità, distinzione, finezza e simili, e tutt’assieme insomma insofferenza di mediocrità, istinto ad elevarsi, presunzione di aristocrazia, consapevolezza di singolarità».

Eppure, Bartolomeo, rimarrà incastrato nella provincia natale, incapace di articolare in modo compiuto il complesso di sentimenti nuovi e antiche fedeltà, passioni rivoluzionarie — siamo nel 1848 — e amore per lo studio che in lui, disordinatamente, si agitano, finendo per dare ragione al figlio, che ben più realisticamente vedeva nella celebrata «morba» un «malcontento, invidia: disagio di gente disequilibrata, irrequietezza di spostati».

«Né rat né usel», Papà, tagliato fuori dalla grande Storia e dai centri della vita intellettuale, esaltato grafomane afflitto dalla propria incompiutezza, riversa su Carlìn, avuto alla veneranda età di cinquant’anni, tutte le sue frustrazioni. 

Deciso a fare del giovane un letterato, si assume l’onere della sua educazione, diventando una cosa sola con l’allievo prediletto: «scolaro con me scolaro: piccino con me piccino». Si trova così, involontariamente, a realizzare il programma pedagogico dell’Idealismo filosofico che avrebbe poi dominato il dibattito italiano: l’unione del discente col docente.

Si tratta delle pagine più belle del romanzo. Carlìn cresce a Torino, dove ormai il padre si è trasferito dalla provincia, tra lunghe passeggiate — egli è un instancabile camminatore dalle gambe robuste —, favole, sonetti e apologhi, che trasfigurano la realtà e omaggiano la creatività umana.

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Bartolomeo è un sanssôssí, che vuol dire certamente «spensierato», ma non nell’accezione di una leggerezza della mente, quanto d’una rischiosa avventatezza delle azioni. Appena giunto a Torino con la famiglia, prima ancora di diventare mentore del figlio, tutto preso dalle sue ambizioni letterarie e politiche, trascura l’economia domestica, rischiando di ridurre tutti in povertà assoluta.

A rimettere le cose in sesto ci penserà Zio Pietro, uomo pragmatico e severo, che riporta alla ragione Papà, diradando le nubi del sogno. Ne viene fuori una riflessione tuttora valida: «I Sanssôssí ci sono stati purtroppo in Italia in quei tali momenti che tutti sappiamo, e si può dire anzi che in certe stagioni per tutta l’Italia non ronzasse altro: ma non son mica stati essi, non è mica stata la loro virtù, la loro fatuità, che ha salvato poi l’Italia: essi, se mai, sono stati sempre quelli che l’hanno spinta, nolente, nei pasticci; e poi, quando nei pasticci c’era l’Italia, e quando le sabbie sotto di essa movevano, e a poco a poco cedevano, calavano, s’aprivano, allora, ad afferrarla, a sostenerla, a tirarla in salvo, già mezza fuor dei sensi, non era mica la folla inebetita dei sanssôssí, ma era quel solito manipolo di uomini sodi, delle poche parole e dagli atti pronti, che si trovavan lì in buon punto per il salvataggio, sol perché da un pezzo avevan preveduto, inascoltati, il naufragio».

Il riferimento, sebbene celato, è al fascismo, all’avventurismo politico di Mussolini, a lungo esecrato da Piero Gobetti, di cui Augusto Monti fu primo e fedele collaboratore. Un dilettantismo che non è mai cessato e che continua a funestare l’Italia, sempre preda d’improvvisati e d’immodesti avventurieri, che mille volte l’hanno gettata nella tempesta e che mille volte son venuti a trarre d’impaccio quelli che sanssôssí non erano, e a lavoro finito «avevan la faccia dura ed accigliata, e non serbavan più per sé neanche un sorriso».

L’ultima parte del libro è dedicata all’attività politica e sindacale di Carlìn/Augusto Monti e alla maturazione della sua coscienza politica, che avviene in contrasto con le idee di Papà, monarchico e giolittiano. L’Italia che il giovane, divenuto ormai professore, vorrebbe riformare, è la stessa Italia di oggi, con le sue tare secolari, radicate nel fondo dei secoli.

Dai suoi maggiori, Salvemini e Prezzolini soprattutto, apprende che «la bestia nera, il cancro che rodeva lo stato democratico moderno» è la burocrazia, definita anche «tristo retaggio della monarchia assoluta». Il grande socialista, inoltre, lo premunisce contro l’infatuazione attualistica e gentiliana: «parlava troppo colui di Uno, di Assoluto, di Divino, di “Stato come si laicizza affermando sé fine, sé assoluto, sé divino — testuale! —con tono tanto truculento, con piglio tanto minaccioso: come fidarsene quando ti veniva a parlare di libertà?».

Carlìn, coerente coi propri ideali, divenuto interventista di area democratica a ridosso della Prima Guerra Mondiale, si arruola volontario, una scelta che guasterà il suo rapporto con la moglie. L’estrema conformità ai valori professati è caratteristica dell’autore stesso, che sconterà col carcere, sebbene non più giovane, l’opposizione al regime fascista.

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Ci sarebbe da dire ancora molto su questo imponente capolavoro, vera e propria «autobiografia della Nazione», che nulla concede e perdona agli Italiani, ai più grandi come ai più minuti. Un libro fieramente antiretorico, estraneo alle ideologie e all’autocompiacimento, arguto e umoristico, teso a sgonfiare ogni forma di dannunzianesimo.

Si dovrebbe tornare a leggere Monti, dunque, questo moralista nella tradizione di Cicerone e Tocqueville, farlo uscire dall’oblio, per apprendere, da lui, «giacobino mite», l’intransigenza civile e la passione per la libertà, contro tutte le facilonerie e tutti gli accomodantismi.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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