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“ELEGIA AMERICANA”: UNO SPACCATO DELL’AMERICA BIANCA “NON PRIVILEGIATA” CHE ANCORA POCHI CONOSCONO (di Chiara Colombara)

Elegia americana: titolo italiano fuorviante. Decisamente più calzante l’originale, Hillbilly Elegy. Un romanzo autobiografico di J.D.Vance, pubblicato in Italia da Garzanti, che ci racconta uno spaccato dell’America sconosciuto ai più, quello degli Hillbilly appunto. Sono i bianchi delle zone rurali e montuose degli Stati Uniti, vaste aree dove regnano l’arretratezza culturale, la povertà e la violenza.

J.D. cresce nella Rust Belt, un tempo cuore dell’industria pesante che ha visto massicce emigrazioni di operai all’inseguimento del sogno americano, all’inizio del Novecento, sogno infranto a metà del secolo a causa del declino economico che ha portato inevitabilmente al decadimento sociale.

J. D. Vance, Elegia Americana, Garzanti.

“Qui vi racconto la vera storia della mia vita. Voglio che la gente sappia come vivono i poveri e qual è l’impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cos’ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che capisca in cosa consiste realmente il cosiddetto ascensore sociale. E voglio che capisca una cosa che ho scoperto solo di recente: chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle.”

L’autore racconta la povertà fisica e spirituale dei White trash, i bianchi americani considerati spazzatura, perché la povertà e il disprezzo etnico non sono riservati solo agli afroamericani e ai latini. “C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per capire la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari”.

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I nonni di J.D. emigrano dagli Appalachi verso l’Ohio alla ricerca di lavoro e di una vita dignitosa. Ben presto il sogno si infrange, non solo per motivi economici. Con rara franchezza J.D. ci racconta come l’insicurezza economica sia solo in parte responsabile del declino che va attribuito anche a caratteristiche insite nella comunità: indolenza, scarso senso di responsabilità e attitudine a “vivere alla giornata”. Caratteristiche peggiorate, se non rese croniche, dal welfare statale che ha spinto la gente ad anteporre i sussidi alla corsa al successo.

La madre di J.D. è una dipendente da droghe e psicofarmaci, cambia continuamente partner obbligando il figlio a incessanti traslochi e ricostruzioni di rapporti con dei patrigni che appaiono e scompaiono continuamente dalla sua quotidianità. Fortunatamente i nonni riescono a sopperire alle carenze dei genitori. Persone ignoranti e riottose, ma difensori di valori quali l’onore e il rispetto dei (più) poveri. (“Non c’è nulla di più disgustoso dei poveri che rubano ai poveri. La vita è già difficile così. Non possiamo assolutamente complicarcela a vicenda”).

Guai a fargli un torto, il fucile sempre pronto in casa per l’uso. Guai a offendere un membro della famiglia, pena il linciaggio. I panni sporchi si lavano in casa e in quelle zone nessuno aveva un bucato lindo. Le liti e le violenze erano all’ordine del giorno, talvolta diventando spettacolo per il vicinato che si affacciava a osservare ed ascoltare come fosse uno show televisivo, senza giudicare, consapevoli di portare su di sé, ciascuno, un qualche peccato.

Dalla madre, l’autore, oltre ad un’infanzia destabilizzante, ha ricevuto anche ripetute violenze psicologiche, ferite che i nonni non sono riusciti a prevenire né sanare. Esemplare la scena della madre che chiede al figlio di riempirle una provetta di urina per passare i controlli anti droga previsti a lavoro. Mentre J.D. vorrebbe rifiutare, già consapevole che assecondare quel tipo di richieste avrebbe significato darsi per vinti all’eterna tossicodipendenza della madre, la nonna, spinta da una logorante speranza di riscatto della figlia, esorta il nipote ad acconsentire.

Fu comunque spronato a studiare, ad impegnarsi per poter accedere a un’istruzione universitaria. La nonna lo affiancò sempre affinché forgiasse un carattere sicuro e pronto ad affrontare un mondo difficile.

Anche la fede, un tempo cardine e guida della comunità, mutò in tempi di crisi diventando più personale e meno comunitaria, facendo perdere così fiducia. “Nonna, Dio ci ama?” le chiese un giorno J.D. “Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. La mia domanda l’aveva ferita perché la fede cristiana era al centro delle nostre vite, in particolare della sua. Non andavamo mai in chiesa, salvo in rare occasioni nel Kentucky o quando la mamma decideva che la religione era ciò che faceva per noi. Ciò nonostante quella della nonna era una fede molto personale (ancorché eccentrica). Non riusciva a dire «religione organizzata» senza un tocco percepibile di disprezzo. Considerava le chiese terreni di cultura per pervertiti e usurai. E odiava quelli che definiva «baciapile»: persone che non perdevano occasione per esibire la propria fede, sempre pronte a farti sapere quanto erano pie. Eppure donava gran parte del suo reddito disponibile a varie chiese di Jackson, nel Kentucky”.

Dopo un’adolescenza turbolenta, lo scrittore entrò nei marines, esperienza che lo rafforzò molto sia fisicamente (“le nostre abitudini alimentari e sportive sembravano fatte apposta per mandarci prematuramente all’altro mondo”) che umanamente. Riuscì poi ad entrare nella prestigiosa università di Yale, dove si laureò in Giurisprudenza, incontrò una donna che diventerà sua moglie, mettendo le basi per una carriera di successo. Tuttavia, porta con sé profonde lacerazioni dell’anima che compromettono spesso i rapporti con i cari e lo rendono sempre psicologicamente vulnerabile.

La sua è la storia di uno che ce l’ha fatta. Consapevole tuttavia di essere un’eccezione.

“Sarebbero passati anni prima che mi rendessi conto che non c’era libro, esperto o indagine sociale in grado di spiegare pienamente i problemi degli hillbilly nell’America moderna. La nostra elegia è sociologica ma concerne anche la psicologia, la comunità, la cultura e la fede. […] La realtà della nostra comunità è una drogata seminuda che distrugge quel minimo di valore che ancora esiste nella sua vita. Sono bambini costretti a rinunciare ai giocattoli e ai vestiti perché la mamma deve comprarsi la droga”.

Bambini abbandonati a sé stessi, donne che pensano a fare figli per vivere di welfare, adolescenti inghiottiti in prigioni urbane prive di servizi. Persone di mezza età che spendono tutto quanto guadagnano (o  ottengono dallo Stato) in costosissimi oggetti inutili, che si indebitano per comprare regali di Natale ai figli trovandosi poi con il frigorifero vuoto. Case in preda al caos e a comportamenti irrazionali. Assistenti sociali che intervengono in maniera del tutto inopportuna, incuranti o ignoranti delle dinamiche della comunità: non considerano per esempio l’importanza delle famiglie allargate, di zii, cugini, nonni preferendo dare in affidamento bambini problematici a perfetti sconosciuti (che puntualmente li rispediscono indietro), piuttosto che affidarli alle cure di qualche membro sano della famiglia. L’abbandono scolastico è altissimo, si colpevolizza la società o la ristrettezza economica ma non si consegnano gli strumenti per evitarlo, primo fra tutti la pace domestica. Cercano lavoro, raramente lo trovano ma anche quando accade mantengono per poco l’impegno, dando poi la colpa a delle non ben precisate “ingiustizie”.

Non è così per tutti, ovviamente. Ma quella è la norma. J.D. ce l’ha fatta: “Io sono sempre stato con il piede in due scarpe. Grazie alla nonna, non ho visto solo il peggio di ciò che offriva la nostra comunità, e sono convinto che sia stata lei a salvarmi. C’era sempre un porto sicuro e un abbraccio affettuoso se ne avevo bisogno. I figli dei nostri vicini non potevano dire la stessa cosa”.

Forte è sempre stato il patriottismo che animava la comunità: la nonna aveva due divinità, Gesù Cristo e gli Stati Uniti d’America. Così J.D e tutti i suoi conoscenti. Quel tipo di amor patrio di cui si fanno beffe gli uomini d’affari di Wall Street, quello che li porta a commuoversi sentendo l’inno Proud to be American, a stringere la mano ai veterani e a rifiutarsi di guardare il film Salvate il sodato Ryan per non doversi vergognare di piangere nel finale.

È partendo da queste premesse che un popolo, generalmente sostenitore dei democratici, nel 2016, si rivelò decisivo per l’elezione di Trump, sentendosi abbandonato da una élite che non lo rappresentava.

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Obama sembra un alieno a tanti abitanti di Middletown per ragioni che non c’entrano nulla con il colore della pelle […] È brillante, benestante e parla come un professore di diritto costituzionale – perché lo è, naturalmente. Non ha niente in comune con le persone che ammiravo nella mia adolescenza: il suo accento – pulito, perfetto, neutro – è estraneo; ha vissuto quasi tutta la sua vita a Chicago, una metropoli; ed è così sicuro di sé perché sa che la moderna meritocrazia americana è fatta per lui. Ovviamente, ha dovuto superare anche lui delle avversità – avversità familiari a molti di noi – ma questo è accaduto molto tempo prima che salisse alla ribalta. Il presidente Obama è apparso sulla scena proprio quando molti membri della mia comunità cominciavano a credere che la moderna meritocrazia americana non fosse fatta per loro. Sappiamo di non essere all’altezza.
Barack Obama fa risaltare le nostre insicurezze più profonde. È un buon padre mentre molti di noi non lo sono. Indossa abiti adeguati alla sua posizione mentre noi indossiamo la tuta, se siamo così fortunati da avere un lavoro. Sua moglie ci dice che non dovremmo dare da mangiare ai nostri figli certe cose, e noi la odiamo per questo: non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione”.

Un romanzo autobiografico scorrevole che accende un piccolo riflettore su uno spaccato di America poco noto e scarsamente considerato, sulle profonde fratture sociali che la lacerano e che non hanno nulla a che fare con le componenti etniche come erroneamente si potrebbe pensare. Un abisso che separa ricchi e poveri, acculturati e incolti, borghesi e proletari, una voragine che si fa sempre più profonda e marcata, relegando i secondi ai margini della società e spegnendo loro il desiderio di lotta e di riscatto sociale.

Chiara Colombara

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