Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

LA DESCRIZIONE DEL DOLORE (di Letizia Dimartino)

INVITO ALLA LETTURA

di Matteo Fais 

Ora la mia giornata non è più/ che uno sterile avvicendarsi/ di rovinose abitudini/ e vorrei evadere dal nero cerchio.

Vincenzo Cardarelli, Alla deriva

L’esistenza è così breve. In un attimo, si riduce a ricordo e nostalgia. Il passato pesa perché, diversamente dal futuro, è una cosa. Solo adesso, quando volge alla fine, quella felicità è vera gioia – o quella tristezza una pena insormontabile. Il dolore e l’infermità, la vecchiaia, ci privano della libertà e, conseguentemente, della possibilità del riscatto.

È tutto perduto? Forse, no. Il ricordo dell’amore aiuta a non dimenticare come si fa. E un animo teso con tutto sé stesso alla gioia cerca e trova sempre l’oro della vita, anche in fugaci visioni. La vita resta vita, anche se ormai osservata da lontano, sbirciando da una finestra.

I TESTI DI LETIZIA DIMARTINO

Da qui il mare oggi è d’oro azzurro. Come se fosse già settembrino. Il silenzio si è fatto grande intorno. Tutto è perché non debba muovermi troppo, le tortore sono agitate, io attendo la “rema”, quel cambio di vento che viene dal mare siciliano alle undici in punto, una brezza salutare che porta frescura per alcune ore. Sto trattenuta da tre cuscini sul letto che mi piace, nella stanza che mi piace, in un’estate che si fa morbida per me. Ho amici cui penso, giorni distanti e difficili, colazioni con bambini e granite di limoni aspri, viaggi che non ho più fatto, chiese viste e dimenticate, crocifissi di legno e canti gregoriani nei pomeriggi di paura per colline italiane sconosciute. Automobili azzurre e autostrade nuove, vento sui capelli e canzoni mormorate con la fronte poggiata ai finestrini. L’amore c’era sempre anche se non vero, credevo di sentirlo in ogni istante, era una fantasticheria necessaria. Così come chiudere gli occhi aspettando che giungesse il sonno la sera. Così come non succede più

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In questi sei anni costretta in casa ho guardato all’infinito dalle finestre, monti e alberi e tetti e nuvole maestose in inverno e suv veloci e anziani col bastone e giovani in tuta e donne col cagnolino e coppie abbracciate e imbacuccate, fronde piegate dal maestrale, eucalipti altissimi sbattuti dallo scirocco bianco, ho mangiato dolci seduta in poltrona e annusato piantine di rose scarlatte, ho sfogliato libri di poesie piccoli dalle copertine famose e bianche, ho dormito fra lenzuola dai fiori pallidi di seta e dal lino azzurrato, indossato vestaglie illuminate da spille luccicanti e camicie da notte con pizzi e ricami, arrotolato spaghetti col sugo di calamari e capperi, tagliato torte in aprile e offerto per i Natali arancine dalla crosta dorata, addobbato alberi con sfere di vetro bianco e argentato, accolto nella mia camera parenti in visita e atteso telefonate amorevoli, guardato nei cassetti fra le cose antiche e le foto dei genitori sorridenti, spruzzato profumi di Guerlain e raccolto vetri di Murano, letto libri su libri nel mio Kindle indispensabile, ho preso antidolorifici tutti i giorni, parlato con medici pazienti e affettuosi, ascoltato il canto dei canarini in gabbia e il tubare dei colombi sul balcone, acceso le luci ogni sera credendo che qualcuno che mi ama abbia saputo scorgermi nelle stanze per pensarmi passando sulla via, pregato malamente e di fretta, intinto il pane nell’olio e guardato la mia pelle cambiata, dormito con l’iPad acceso ascoltando Pino Daniele, scritto per voi innumerevoli post tutti simili. Ho girato per le stanze e riletto i miei libri pubblicati negli anni, col dolore di chi sa che poco può restare, detto ciao a tanti amici con la mia voce squillante nonostante la sofferenza, atteso i miei figli nella sera per dirci del giorno che ci tiene lontani in due città, messo il rossetto solo per poco, chiuso gli occhi nel disagio fisico. Ho sorriso e gridato. Ho guardato i miei abiti che pendono ancora bellissimi e soli negli armadi, conservato le scarpe ormai inservibili. Detto addio a tanto, piano piano. Ma ho amato

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Io ormai attendo. Tutto. Alle sette del mattino mi sveglio e attendo che si facciano le otto. Per alzarmi. Alle otto attendo che siano le nove e una delle due badanti venga. Alle dieci attendo che si facciano le undici per pranzare e coricarmi. Poi che si ritiri mio marito e che sia l’una per il suo pranzo. E alle due che si faccia pomeriggio e che il giorno volga. E via via, nelle ore successive. Attendo che qualcuno mi scriva o mi telefoni chi desidero, e non sempre succede. La sera si presenta piano, e ho una specie di timore, la notte ormai è solo dolore e insonnia. Cerco nel pensiero intimo un conforto, un sostegno. Amo i miei quattro cuscini, amo chi mi sa pensare, la mia stanza. Amo. E attendo. Con pazienza. Spengo la luce e attendo i miei sogni coloratissimi. E la pietà

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