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LA “BUONA DESTRA” DI ROSSI? NO, GRAZIE, SIAMO GIÀ FIN TROPPO MODERATI

In Italia, gli esponenti della sinistra si lagnano per la mancanza di una destra «seria», ovvero indistinguibile dal progressismo imperante. È un atteggiamento meschino, fingono di accettare il pluralismo solo per meglio negare spazio alle opinioni alternative.

Simulano dispiacere per l’assenza di una destra moderna, laicissima, europeista, merkeliana, cioè per una destra ritagliata sulla sinistra, che porti il marchio della correttezza politica. Di tanto in tanto, un personaggio che si dice «di destra» propone un nuovo partito approvato dalla sinistra.

Alcuni uomini sono sensibili al fascino della mondanità mancina, amano essere elogiati dalla «parte giusta», svengono come pallide dame davanti a Fabio Fazio o Roberto Saviano. Il ruolo di damigella d’onore della sinistra spettò, prima, a Gianfranco Fini e, oggi, alla sua versione scamiciata, Filippo Rossi. Ma, a ben vedere, tutta la destra del presente ha questa tendenza a stemperare sé stessa per farsi accettare dalla sinistra.

La destra italiana, nelle sua tre componenti principali, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, assomiglia a un golf club per anziani annoiati. I parlamentari dei partiti in questione giocano a chi è più «moderato», nel tentativo di accreditarsi presso il Governo e la stampa. Sono convinti che non intralciare l’esecutivo li faccia apparire «responsabili» e «affidabili». Diluiscono qualunque presa di posizione «forte» nella convinzione di ottenere la magica aura dell’«affidabilità» ed essere, finalmente, accettati nel parnaso della rispettabilità politica.

Pensano di vincere appiattendosi sulle idee dominanti. Sono stanchi di passare per «estremisti» e si genuflettono agli avversari. Il sogno segreto della destra non è vincere le elezioni, ma farsi trattare bene da Lilly Gruber, farsi baciare sulla fronte dalla sue labbra siliconate. La destra ha voglia di approvazione, di applausi, di essere accettata nei salotti buoni, che hanno un magnetismo irresistibile. Avere idee giudicate sconvenienti, dopo un po’, stanca, bisogna farsi accettare, diventare la copia sbiadita di sé stessi, slavati e anemici.

Dopo anni, la destra ha deciso di esaudire il desiderio della sinistra, diventare decente, distinguibile da quest’ultima per un nonnulla. Una destra moderata e autorevole, ovvero insipiente, conformista e seriosa. È una grande operazione estetica e anestetica, bisogna porre in essere una metamorfosi, diventare «maturi», ovverosia pedanti, unendo in sé la compostezza cadaverica di Augias e la rigida seriosità di Massimo Franco.

I membri della destra «buona», i toreador della moderazione, sono intimoriti da qualunque affermazione decisa di sovranità e identità. Non hanno ben compreso che la prudenza del conservatorismo è una diffidenza verso i grandi progetti di palingenesi rivoluzionaria, non un molluschismo politico. Edmund Burke ebbe parole di fuoco contro la rivoluzione francese. I moderati nostrani, invece, hanno solo mezze parole condite con innumerevoli «se» e «ma».

Si profila all’orizzonte un nuovo fenomeno sociologico, quello dei radical chic di destra, ovvero il fascino dei conservatori da salotto. Hanno i capelli impomatati di Zaia, la retorica di Renzi, il grigiore di Monti e la fiacchezza politica di Filippo Rossi.

Davide Cavaliere

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