Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

IL MUTAMENTO ANTROPOLOGICO DELLE FEMMINE SPIEGATO CON LE CANZONETTE ANNI ’80-’90 (di Matteo Fais)

“I used to love her, mm, oh, yeah, but I had to kill her/ She bitched so much, she drove me nuts/ […] I had to put her, ooh, six feet under/ And I can still hear her complain” – “La amavo tanto, sì, ma l’ho dovuta uccidere/ troieggiava a più non posso, facendomi impazzire […] L’ho dovuta seppellire, sì, sottoterra/ e ancora la posso sentire che si lamenta” (Guns N’ Roses, Used to Love Her)

Certamente, le donne meritavano una liberazione – come qualsiasi essere in catene. Il problema sta nel fatto che, se l’ingresso nella nuova normalità non avviene gradualmente, l’ubriacatura di libertà può avere conseguenze nefaste o, quantomeno, tragiche.

Per spiegare su base antropologica il mutamento a cui queste sono andate incontro, divenendo sovente non donne risvegliate, come Sylvia Plath o Edna St. Vincent Millay, ma un manipolo di stronzette sfrontate come milionari e intollerabili come piattole, bisogna studiare le canzonette di alcuni decenni addietro, seguendo il principio secondo cui il mercato sa sempre di cosa ha bisogno il popolo in un determinato momento.

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Naturalmente l’Italia, eterno fanalino di coda – per sfortuna o per fortuna –, si accoda con leggero ritardo. Ancora negli anni ’70 e ’80, le nostre interpreti, da Mia Martini a Loretta Goggi, cantano amori disperati e frustranti, sempre secondo il canone classico – del resto, i testi sono scritti da uomini – di un soggetto remissivo, debole, che si trova in una posizione subalterna rispetto all’oggetto d’amore – aristotelicamente parlando, il Primo Motore Immobile, sul piano amoroso, spinge verso di sé, ma resta imperturbabile, mentre l’amante si affanna e si dà il tormento per guadagnare la pace della congiunzione.

Nel resto del mondo anglofono, invece, la situazione, dopo il ’68 e gli anni a seguire, sta mutando velocemente e irreversibilmente. Le donne sono stanche di recitare la parte delle creature angelicate – che, fuor di dubbio, non sono mai state – e tendono ad affermare la propria autonomia in un modo decisamente sopra le righe, vagamente oltraggioso in senso adolescenziale. È l’epoca di Madonna e di quel chihuahua indemoniato – vedasi la pettinatura da beauty center per cani – di Cyndi Lauper che intona sguaiata come pochi Girls Just Want to Have Fun, un brano di Robert Hazard a cui lei imprime un groove decisamente femminista.

Quella canzone fa da apripista alla deresponsabilizzazione femminile eretta a sistema filosofico, con la donzelletta che torna a casa all’alba e, mentre il padre le grida dietro “Ma, insomma, che pensi di fare vivendo così?”, gli risponde dicendo “Papà, lo sai che sei il mio preferito, ma le ragazze come me hanno bisogno di divertirsi”.

I discografici e il mercato musicale americano avevano ben fiutato come fosse cambiato il vento e forniscono al genere femminile il salvacondotto di cui è in cerca per abbandonarsi.

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È negli anni ’90, però, che il fenomeno si consolida e muta in mentalità diffusa, in struttura antropologica forte. Ed ecco che nel 1995 emerge questa cantante, Alanis Morissette, impostasi con un singolo, You Oughta Know, un brano rancoroso e, oggi diremmo, misandrico, carico di un’energia rabbiosa, ma onesta, in cui la donna rivendica il suo diritto all’odio verso l’uomo che l’ha abbandonata (“And every time I scratch my nails/ Down someone else’s back I hope you feel it” – “E ogni volta che graffierò la schiena di un altro/ con le mie unghie, spero sia tu a sentirlo”). La sua voce è potente, viscerale, a tratti vaginale nel senso che porta a galla un recondito nascosto nelle zone più invisibili. Oramai è chiaro: le donne hanno macigni in cuore che si portano appresso da secoli e non se li terranno più dentro. Se il caso, ce li scaglieranno contro.

Com’è ovvio, le epigone spuntano come metastasi dopo che il cancro si è ampiamente insediato. E in quegli anni, in particolare nel ’97, è tutto un fiorire di femmine che – è il caso di dirlo – se la cantano e se la suonano alla faccia nostra. Ecco dunque questa olandese, Anouk che, scatenata come poche, sale sul palco per rivendicare, in Nobody’s Wife, il suo diritto a non essere definita in quanto moglie di qualcuno e fare il bello e il cattivo tempo un po’ come le gira (“I’m sorry/ For the times that I made you scream/ For the times that I killed your dreams” – “Mi spiace/ se ti ho fatto urlare/ se ho ucciso tutti i tuoi sogni”). Al momento, giusto per saperlo, ha sei figli con tre uomini diversi e chissà cosa verrebbe fuori a fare qualche test del DNA.

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Parallelamente, nel medesimo anno, esce Bitch di Meredith Brooks, una sorta di dichiarazione di intenti generazionale (“I hate the world today/ You’re so good to me, I know, but I can’t change/ Tried to tell you but you look at me like maybe/ I’m an angel underneath/ Innocent and sweet” – “Oggi, odio il mondo/ Tu sei tanto buono con me/ Ma davvero, io non posso cambiare/ Ho provato a spiegartelo ma tu mi guardi come se in fondo/ Io fossi un angelo/ una creatura dolce ed innocente”). Non una puttana, come credono tutti che si traduca il titolo, ma una stronza, ecco il significato: rivendicare la possibilità di essere una insopportabile lunatica che fa il cazzo che le pare, rompe i coglioni e non si cura dell’entropia che scatena intorno a sé pur stando in una relazione.

Adesso, apparirà palese come tutto ciò che si può leggere di proclamato ed esaltato in queste canzoni non sia molto diverso da quello che le ragazze includono come descrizione nelle proprie biografie su Tinder o in ciò che ti dicono quando le conosci. Praticamente: sono delle stronzette, non vogliono essere brave mogli ma, se la libertà sessuale che rivendicano per sé stesse la eserciti anche tu maschio, sei un inutile bastardo che le ha usate. Questo, in estrema sintesi il percorso storico-culturale. Lo scenario antropologico che ci troviamo davanti, lo conoscete già.

Matteo Fais

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Telefono e WhatsApp di Matteo Fais: +393453199734

L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

3 commenti su “IL MUTAMENTO ANTROPOLOGICO DELLE FEMMINE SPIEGATO CON LE CANZONETTE ANNI ’80-’90 (di Matteo Fais)

  1. “…Al momento, giusto per saperlo, ha sei figli con tre uomini diversi e chissà cosa verrebbe fuori a fare qualche test del DNA…”

    Steso😂😂😂…

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