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L’EDITORIALE – LA SPASMODICA NECESSITÀ OCCIDENTALE DI SENTIRSI IN COLPA (di DAVIDE CAVALIERE)

Come accaduto per l’omicidio della etiope Agitu Gudeta e per i fatti di Ceuta e Melilla, anche il tragico suicidio di Seid Visin ha scatenato il delirio emotivo e colpevolizzante di tanti antirazzisti dal cuore d’oro. I commenti sotto ai post di Open e La Repubblica, dove abbondano dichiarazioni come “è colpa nostra” o “lo abbiamo ucciso noi”, sono la manifestazione di un desiderio inconscio di colpevolezza.

L’uomo bianco occidentale è afflitto da un inguaribile senso di colpa, si autoflagella per il colonialismo ottocentesco, per l’immigrazione, per il clima e gli oceani. È costantemente in preda a un’emorragia di buoni sentimenti e buone intenzioni. Ricoperto da rash umanitari e filantropici.

Il senso di colpa non è sempre spiacevole. A volte può essere una forma di voluptas dolendi, di compiacimento e di senso di elezione. L’occidentale che dichiari, in pubblico, la propria contrita responsabilità verso l’Africa, la Palestina, l’Amazzonia non sta facendo altro che affermare la propria superiorità morale di uomo buono, attento e coscienzioso.

Affermazioni irrazionali e penitenziali come “abbiamo ucciso noi Seid Visin, con la nostra indifferenza” sono un modo per dire: “guardatemi, leggetemi, sono un essere umano autenticamente attento al prossimo”. La cronaca nera riguardante gli stranieri, meglio se neri, è diventa, per gli antirazzisti, una ghiotta occasione per ostentare la propria virtù, la propria sensibilità artificiosa e sbracata.

C’è qualcosa di perverso, oltre che di intensamente ipocrita, in tutti coloro che ieri si genuflettevano per il delinquente George Floyd e si prostravano alle treccine svedesi di Greta, e che oggi si accusano del suicidio di un giovane. Desiderano punirsi e umiliarsi. Sono la versione moderna delle sette medievali che giravano per le strade battendosi la schiena nel tentativo di espiare le colpe collettive e celebrare la propria fanatica devozione.

Il masochista occidentale si spende in gesti simbolici e autodenunce dalle quali trae un piacere segreto. Il militante della bontà indossa la corona di spine dell’antirazzismo e si mette al centro delle scena perché, in fondo, non sopporta che la vittima da lui idealizzata offuschi la teatralità del suo ravvedimento.

Certe forme di chiassosa e lacrimevole sensibilità vero l’Altro, il Diverso, il Nero sono solo spavaldi e insinceri mea culpa. L’intensità del loro pianto è strettamente correlata alla rapidità con cui tornano alle loro faccende quotidiane. Flagellarsi è solo un altro modo per prendersi cura di sé, una variazione sul tema dell’egoismo. Frivolezza della compassione.

I commenti impregnati di colpa sono il Confiteor dell’antirazzista, una moderna preghiera penitenziale: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

Davide Cavaliere 

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