Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

POESIA E REALTÀ – HA SENSO AFFIGGERE LIRICHE SUL METRÒ COME A LONDRA? (di Matteo Fais)

“And the sign said, ‘The words of the prophets/ Are written on the subway walls’” (Simon & Garfunkel, The Sound of Silence).

Nel 1995, una giovane americana che risponde al nome di Joan Osborne cantava, in un pezzo divenuto immediatamente un classico del periodo, One of us: “What if God was one of us?/ Just a slob like one of us/ Just a stranger on the bus/ Tryin’ to make his way home?” (Come sarebbe se Dio fosse uno di noi?/ Semplicemente uno qualsiasi come tanti/ Un estraneo che sull’autobus/ Vuole solo tornare a casa”.

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Niente di strano nel bisogno espresso dalla cantante per un Dio che si fa uomo – in teoria, Cristo dovrebbe incarnare proprio tale ruolo. Il filosofo e letterato Miguel de Unamuno aveva già messo su carta qualcosa di simile nel suo Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, precisando di non sapere che farsene del Dio dei filosofi così distante e ridotto, come si suol dire in linguaggio tecnico, a mero “ente di ragione” dalla teologia razionale. A tale idea, egli preferiva quello delle raffigurazioni, l’uomo barbuto che soccorre gli ultimi e porta loro conforto. Come lui tanti hanno pensato che un essere metafisico che abita il regno celeste, a debita distanza dal nostro mondo, sia in fin dei conti inutile per un’umanità che ha tanto bisogno di amore, ovvero di carità spirituale.

Un ragionamento affine potrebbe essere mosso per ciò che riguarda quel filone letterario considerato nel Vecchio Mondo sempre più un’attività da iniziati, ovvero la poesia. Ci si potrebbe, dunque, chiedere: ha senso portare i versi sugli autobus, o sulle linee del metrò in mezzo alla gente comune? A quanto pare, consultando il sito Poems on the Underground (https://poemsontheunderground.org/), ciò già avviene in alcune parti del mondo e, per esempio, a Londra, dove da decenni i viaggiatori, tirando un poco su il muso, possono leggere autori quali Seamus Heaney e tanti altri.

Sulla questione, i nostri autori laureati – nel senso di largamente riconosciuti dalla bolla letteraria – tendenzialmente storcono il naso. “La poesia è una cosa seria” smoccolano loro, intendendo, come da tradizione europea, che essa va letta e meditata in religioso silenzio, nel chiuso del proprio studio. Del resto, per dirla con il titolo di un album di Vasco Rossi, Non siamo mica gli americani. Dall’altra parte dell’Oceano, durante le manifestazioni, per esempio quelle contro la guerra in Vietnam, scrittori famosi salivano sul palco a recitare i propri versi. Persino Biden, al suo insediamento, ha fatto leggere un testo a tale Amanda Gorman, una simpatica ragazza di colore – il componimento era, tra parentesi, orripilante, esattamente come il successivo operato del Presidente USA.

Sempre alcuni tra i poeti di spicco qui da noi sono persuasi che tutti questi tentativi di semplificazione e sdoganamento, come quelle porcherie di Franco Arminio o la controversa forma del poetry slam, non abbiano alcuna utilità per spingere le masse verso la cultura alta. Chi legge quel gran ruffiano delle lettere non si butterà poi su Sereni, Raboni, Montale e Ungaretti. Loro sostengono che i tentativi avanzati in tal senso non abbiano mai prodotto risultati positivi tali da far ben sperare, che il pubblico debba invece essere messo al cospetto della monumentale grandezza della vera letteratura, imparando che questa non è un gioco da ragazzi, o se preferite una lettura da svolgersi al cesso.

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Difficile stabilire univocamente chi abbia ragione tra loro e questi anarchici del postmoderno desiderosi di un rimescolamento totale delle carte. Di certo c’è che da noi il peso della tradizione è un macigno che portiamo al collo mentre tentiamo di nuotare verso la superficie.

Anche questa esaltazione di una cultura alta in contrapposizione a una bassa, o al massimo etichettata come pop, non aiuta certo in senso assoluto e crea non pochi mostri. Scrivere oggi avendo come riferimento l’universo culturale, antropologico e addirittura paesaggistico di Leopardi, come fanno molti giovani, risulta vagamente ridicolo. Per carità, insuperabile il poeta di Recanati con i suoi versi (“Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro/ Che voglia non m’entrò bassa nel petto,/ Ch’arsi di foco intaminato e puro”), per quanto in questo tempo nessuno ami più secondo tale sentire, visto che, se i sentimenti non mutano, essi si declinano in ragione del mondo intorno al soggetto.

Non è un caso se poi le persone, anche quelle colte, si ritrovano più nelle canzoni – che non siano canzonette –, da quel “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere/ Se poi è tanto difficile morire” a episodi più recenti di tutto riguardo. Si pensi, per esempio, ai Kaufman di Macchine Volanti, con la loro dolcissima malinconia adolescenziale (“Sei sparita già da un giorno/ Mi consolo con un porno/ […] Solo nel mio appartamento/ E ho la sensazione che non smetterà/ E le scritte sui muri/ Che vedo dai vetri/ Dicono che c’è solo Breaking Bad/ Fino ad addormentarmi/ Fino ad attutire con gli alcolici distanze/ Che da sobri sono sempre/ Più grandi”); o una Marianne Mirage con L’amore è finito (“Coi buoni benzina/ come House of Cards/ Nei baci sepolti in maschere antigas/ […] e noi stesi a immaginarci/ Sopra le banconote bruciate/ A darci una vita in questo futuro usato”).

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Forse una soluzione, o almeno una via di mezzo ragionevole, starebbe nel riportare la poesia tra noi a livello di linguaggio, dismettere quell’artificiosa forma prettamente letteraria, sentire nuovi suoni più vicini alla vita odierna: la lavatrice che oscilla vorticosamente, la lavastoviglie che ronza in sottofondo o il televisore che dice parole vuote come un amico che non abbiamo più voglia di ascoltare.

Naturalmente, questa è solo una proposta – di soluzioni non ne esistono e noi dobbiamo farci i conti in casa nostra. Sta di fatto che i poeti raccolti da Fernanda Pivano, nel 1964, quindi sessant’anni fa, in Poesia degli ultimi americani, sono morti ma suonano più vitali di tanti nati e cresciuti nel nuovo millennio.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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