Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

SALVATORE NIFFOI INEDITO – IL ROMANZIERE SARDO NEL RUOLO DI POETA E SCRITTORE DI CANZONI (di Matteo Fais)

Si comincia quasi sempre dai versi, anche quando poi si approda alla narrativa. Sarà perché sembra più semplice vergare 20 righe, con poche parole in ognuna, in luogo di 200 pagine – in realtà, è quello il mestiere più difficile, misurare l’espressione fino a farle dire più di quanto sia scritto. Abbastanza presto, ciò diviene angosciosamente chiaro a chi prenda davvero sul serio il lavoro della penna.

Non è un caso se chi ha fatto il suo ingresso nel mondo letterario proponendosi come narratore nutra un certo timore nel mostrare la sua eventuale produzione poetica. Sarà pure che il romanzo e la forma racconto sono un teatro entro cui l’autore ha a disposizione infinite maschere per mostrarsi dissimulando. Nella poesia, al contrario, egli è nudo. Per quanto ermetici si possa essere, tra le rime non esistono nascondigli.

Sarà per questo che la poesia è sempre un errore o meglio un guizzo di gioventù, anche in età avanzata, perché ci vuole la faccia tosta e la spavalda caparbietà della giovinezza per aggredire la pagina e palesarsi a quel modo.

Per tutta questa serie di motivi – e per tanti altri – è interessante leggere un Salvatore Niffoi inedito, poeta, addirittura paroliere e compositore di canzoni. Tutti quanti, nei decenni, abbiamo imparato a conoscerlo come un narratore inscindibilmente legato alla Sardegna, colui che per raccontarla ha persino creato una nuova lingua, in cui l’italiano ufficiale viene incanalato entro la struttura dialettale del sardo in una fusione unica, quella che quando lo si legge rende immediatamente riconoscibile l’autore.

Eppure, perso nei decenni del secolo scorso, vi è stato un altro Niffoi non meno abile di quello oramai noto, ma profondamente diverso, irriconoscibile come in una foto in bianco e nero da ragazzo, immerso in un clima culturale di sogni e rivoluzioni, di vita notturna e amori ai confini di altri mondi così diversi da quelli a cui ci ha abituato, in uno di quei tanti paesi partoriti dalla sua fantasia.

Un giovanissimo Salvatore Niffoi.

Si potrebbe quasi parlare di un Niffoi beat, indiano, all’americana che, nella sua esperienza romana da studente di Lettere, respira un vento proveniente da oltreoceano, quello che i vari Cesare Pavese e Fernanda Pivano hanno contribuito a far soffiare anche da noi. È un Niffoi che ascolta il Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg, che cammina metaforicamente sulla strada sperimentale di un Kerouac verso Mexico City Blues.

Interessante anche che il futuro Premio Campiello, da sempre appassionato di musica, si cimenti finanche nella composizione di testi per dei cantanti conosciuti nell’ambiente romano, con combinazioni sempre al confine con la poesia, in cui dimostra una notevole versatilità e abilità metrica, oltre a un’attenzione particolare per un mondo, quello della canzone, allora in notevole espansione, ben prima della disastrosa deriva trap a cui stiamo assistendo.

Dopo un tour de force di circa sei ore di lettura, in cui ho avuto la fortuna di confrontarmi con questa sua massiccia produzione in pratica totalmente inedita, sovente battuta a macchina, sono riuscito a estorcergli tre componimenti da presentare al pubblico in anteprima assoluta.

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IL PAROLIERE

Meglio cominciare proprio dall’autore di testi per canzoni che, lui riferisce, sono stati pensati per il timbro e le capacità vocali di chi avrebbe poi dovuto cantarli. L’inverno del nostro amore brilla tra i tanti perché al netto della forma, chiaramente pensata per essere intonata più che recitata e malgrado il tema amoroso, se vogliamo molto comune in quegli anni nella musica italiana, è paradossalmente più vicino alla dimensione lirica che a quella di un vecchio 45 giri ed è tutto fuorché banalmente improntata alla consueta assonanza del cuore-amore. Insomma, una canzone troppo bella ed elaborata per essere una semplice canzonetta.

Quando l’inverno ritornerà

sapremo da dove nasce il dolore

e guarderemo in faccia la neve

che ha sepolto il nostro amore.

E sarà una carezza lieve

che ti farò da lontano

a ricordarti che io sono la polvere

che ogni giorno respiri piano

l’acqua che bevi dal palmo della mano.

Quando l’inverno ritornerà

lacrime di cera solcheranno il viso

e metteremo le ali ai ricordi

con i corpi svuotati dal sonno

abituati a masticare giorni sordi

ore mute ubriache di niente

passate a rubarci un sorriso.

E sarà una croce conficcata nel cuore

una lampadina sospesa nel muro

a ricordarti la paura dei tuoni

le mie dita che ti raccoglievano

in un abbraccio forte e sicuro.

Quando l’inverno ritornerà

sentirò la pioggia che batte sul tetto

l’odore della notte verrà silenzioso

e avrà il profumo della tua malinconia

fino a quando la luce del giorno

non si spalmerà sopra il mio letto

fino a quando la noia non mi porterà via.

E ogni raggio di sole che cadrà

sarà una stoccata alla schiena

un serpente che mi entrerà in gola

per rubarmi la voglia di vivere

e ingrandirmi la pena.

Quando l’inverno ritornerà

sarà la maschera cattiva di una luna piena

a ballare in cielo da sola

per regalare alle stelle bugiarde

il nostro perduto amore,

sarà un’alba affilata come una spina

tagliente come la tua ultima parola

a portarmi solo ore bastarde

dentro i frutti di un tempo che non avrà più sapore.

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IL POETA DELLLA SUA TERRA – NIFFOI ANTICIPA SÉ STESSO

Al contempo, si capirà bene, niente nasce da niente e Niffoi, in fin dei conti, non è diventato se non ciò che in nuce già era. Lo si capisce da questa lirica intitolata Strade di paese. Ciò che ex post si percepisce è l’emergere di un qualcosa che l’autore non potrà non raccontare e sviscerare ulteriormente. Qualcosa del mondo che ha conosciuto fin da bambino è in lui intimamente radicato e aspetta di trovare voce. Questa poesia appare dunque, adesso, nell’economia dell’opera, un’anticipazione di ciò in cui si sostanzierà la sua futura narrativa. I temi sono già presenti, per quanto il linguaggio non abbia ancora preso quella peculiare forma che abbiamo imparato così bene a conoscere. Eppure, negli echi quasi pasoliniani, c’è tutto lo scrittore che diventerà.

Cammino per una strada di paese

incinta di luce

illuminata da mille occhi randagi

che graffiano i vetri senza speranza

parole antiche lavate dal tempo

stese ad asciugare al sole

bianche di lana appena graminata

gonfie titte di vedova mai fecondata

portali chiusi che non conoscevo

nei cortili silenzio di animali morti

basta un soffio di vento per capire

che gli orti sono rimasti senza profumo

e i bimbi non cammineranno più scalzi.

È la partenza verso non si sa

quella del fumo odoroso di lentischio

che mai più tornerà.

Cammino per una strada di paese

in cerca di ricordi che fuggono

che ormai dormono

avvolti nel sudario della mia memoria.

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LO SPERIMENTATORE

Il più interessante – e forse, al contempo, distante in prospettiva da sé stesso –, però, è il Niffoi all’americana, quello sperimentale e sperimentatore, uomo del suo tempo – siamo nel 1969 – fatto di grandi sogni e ideologie. Questi ultimi vivono in parallelo con la necessità di ridefinire l’amore che, in quel volgere di secolo, sta mutando di paradigma per tutta una gioventù decisa a recide il cordone ombelicale con la tradizione.

Da notare, a ogni modo, come in quel frangente di sconvolgimenti politici e del sentimento, l’orizzonte di riferimento, quello da cui pescare metafore, similitudini e immagini, resti in larga parte afferente all’ambito naturale, invece di rivolgersi alla dimensione tecnologica e a quella metropolitana. Insomma, pur balzando nella modernità con slancio famelico per il nuovo, l’autore porta con sé un bagaglio classico che poi coincide con il quadro antropologico e spaziale entro cui si è formata la sua sensibilità, quello della terra a cui avrebbe dato voce.

Salvatore Niffoi con Fernanda Pivano

Camminando sopra le nude radici delle querce

ti ho ritrovato vestita di stanchezza

assetata di nuove lotte e carezze

ti ho ritrovata fra ciclamini e licheni

stesa tra foglie giganti

intenta a meditare il corpo dilaniato dai secondi

a chiedere alla volontà di rivivere

come fu altre volte

in seni duri e viola, in cosce di rosa canina.

Nel mentre hai bandito proclami

utopie per conigli e talpe

hai dichiarato guerre

inutilmente combattute da disarmate illusioni.

Ed ora camminando ti ho ritrovata

nuova Giovanna D’Arco

sacrificata fra ortiche e scomuniche spaziali.

È vano combattere al tuo fianco

difeso solamente dall’armatura del tempo

sapendo che io giovane vecchio cadrò per primo

e tu vecchia adolescente, cadrai lontano

in altre terre

fra spighe di piombo e lapidi comuni

dove non germoglia il seme della rivoluzione.

Camminando ai bordi dell’asfalto

si può inciampare nei gradini dei tuoi occhi

e poi svegliarsi in un ospedale di croci e granito

dove la tua mano, scolpita sulla mia

sanguina

dietro un sipario di bandiere rosse.

Camminando insieme a te

mi posso ancora perdere

nelle pieghe dei tuoi fianchi

dove il merlo di monte riposa

ed io posso finalmente non ritrovarmi.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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