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IL TEMA CALDO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE AMERICANA: LE “RIPARAZIONI” A FAVORE DEGLI AFROAMERICANI (di Melania Acerbi)

Nel 2014, la rivista americana di economia e cultura “The Atlantic”, diretta da James Bennett e Bob Cohn, pubblicava l’articolo The Case of Reparations del giornalista e attivista Ta-Nehisi Coates. Il pezzo in questione, destinato a sollevare un acceso dibattito negli Stati Uniti, sosteneva, tra le altre cose, la necessità del Governo di rimediare alle cosiddette “ingiustizie storiche” subite dagli Afroamericani attraverso l’approvazione della proposta di legge H.R. 40. 

Presentata per la prima volta nel 1989 dal rappresentante democratico John James Conyers – uno dei fondatori del Congressional Black Caucus (un’assemblea a carattere razziale riservata ai soli membri di colore del Congresso) -, la H.R. 40 mira a istituire una commissione che studi l’impatto della schiavitù, della segregazione e della discriminazione sull’attuale comunità afroamericana. 

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La stessa commissione, in un secondo momento, dovrebbe formulare raccomandazioni per l’attuazione di azioni correttive, o riparazioni, al fine di ridurre le disuguaglianze persistenti tra gli Americani bianchi e quelli neri. La posizione di Coates ricevette allora il sostegno di molte associazioni multirazziali americane, di filantropi, di accademici e di politici, oltre che, come da manuale, di alcuni noti attori di Hollywood. 

Ma in cosa dovrebbero consistere le riparazioni? Le proposte avanzate – non da Coates, che si limitava, nel suo articolo, al tentativo di suscitare nei lettori una risposta emotiva – includono iniziative specifiche di natura sociale e giudiziaria e, più spesso, si concentrano sulla richiesta di compensazioni economiche, come pagamenti diretti a individui di colore (esemplare è il caso della California), volte a mitigare il divario economico tra Afroamericani e altri gruppi etnici. 

Il pezzo è stato aggiornato e rilanciato nel 2019, generando una nuova ondata di discussioni e polemiche trascinatesi sino ai giorni nostri: i candidati alle presidenziali del 2024 difficilmente potranno esimersi dall’affrontare il tema, ormai bollente, delle Reparations.

Gli Stati Uniti si trovano dunque, per l’ennesima volta, a dover dare prova di sé e della loro forza. “The wisest use of American strength is to advance freedom” ribadirebbe, probabilmente, l’ex Presidente G.W. Bush. La promozione della libertà su base individuale, e non razziale, è infatti il caposaldo di una democrazia moderna e liberale, quale è quella americana. 

Le rivendicazioni degli afrodiscendenti, che pure hanno subito in passato ingiustizie su base etnica, non hanno inoltre, oggi, alcun fondamento: nessun uomo attualmente vivo è responsabile di ciò che è successo cinquanta, cento o centocinquanta anni fa, come giustamente fa notare il leader del Senato Mitch McConnell. Non esiste, in altre parole, una colpa retroattiva da espiare, perché i figli non devono pagare per gli errori dei padri. 

Che, poi, tutti i padri furono realmente colpevoli? La narrazione a favore delle riparazioni vorrebbe attribuire al Governo Americano, e agli Americani bianchi in generale, l’intera responsabilità delle umiliazioni e delle persecuzioni sofferte dai Blacks. 

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Il quadro è decisamente, e ovviamente, più complesso di quanto gli attivisti siano disposti ad ammettere: nessuno di loro sembra ricordare che i tre quarti della popolazione degli Stati del Sud non possedeva schiavi e non traeva alcun vantaggio dall’esistenza di questi (tale istituzione contribuiva, invece, a mantenere assai bassi i salari dei lavoratori liberi). Nessuno di loro rammenta il fatto che nel Nord industrializzato l’uso di manodopera schiavile era pressoché inesistente e che essa ha, infine, rappresentato un freno alla crescita economica generale degli States e non il contrario.

Nessun social justice warrior sembra disposto a dare il giusto peso a collaborazioni significative tra abolizionisti bianchi e neri, come quella creatasi intorno alla Underground Railroad, una rete segreta di rifugi e percorsi utilizzati per aiutare gli schiavi fuggiaschi a raggiungere la libertà. 

Quale parte dell’odierna società americana dovrebbe, allora, farsi carico delle riparazioni? A chi destinarle, poi? E in quale misura? Rispondere a tali quesiti, afferma anche il repubblicano J.D. Vance (autore dello strepitoso romanzo autobiografico Elegia Americana, da cui l’omonimo film), non è possibile. La storia in questione, soprattutto nel suo risvolto economico, è inestricabile. 

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È evidente, dunque, che l’obiettivo di superare il razzismo, residuale o incipiente che sia, non possa realizzarsi attraverso l’adozione di risoluzioni marcatamente razziste, in questo caso a spese dei bianchi, perché ciò porterebbe solo a esasperare tensioni etniche già di per sé al limite della gestibilità, basti pensare agli eventi violenti che di recente hanno interessato Portland. 

Nella lotta al razzismo del ventunesimo secolo, che parla la lingua dell’antirazzismo, le parole di filosofi e politologi quali Francis Fukuyama, Isaiah Berlin o Robert Nozick si stagliano, ancora una volta, come fari di speranza. Unendo queste voci, emerge una sinfonia di idee che converge verso una conclusione chiara: la democrazia liberale non è solo un sistema politico, ma una filosofia che abbraccia la diversità, che promuove la giustizia e che offre anche un’ancora di salvezza contro il razzismo, in questo caso di ritorno

Melania Acerbi

L’AUTRICE

Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Fonda nel 2017, insieme a Piero Manetti e al professor Igor Melani, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming). 

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