Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

GIGI PROIETTI, IN MEMORIA DI UN MATTATORE (di Franco Marino)

Non c’è molto da dire ma se n’è andato un grandissimo. Uno che faceva tante cose ma le faceva bene. Forse l’ultimo dei grandissimi talenti dello spettacolo italiano, uno che amava quello che faceva, non sempre ricambiato da quella torbida mafia che sa essere la critica.
Gigi Proietti era indiscutibilmente di sinistra. Ma aveva il difetto – che dalla critica gli fu fatto pagare chiaro – di non prendere troppo sul serio la sua collocazione politica e di rimanere sostanzialmente estraneo alle mafie rosse. I critici gliela fecero pagare diffondendo per anni la mitologica e fasulla convinzione che il suo volto non bucasse lo schermo. Un colpo basso dal sapore puramente politico e un macroscopico errore, ma per difetto.
Perchè è vero che Gigi Proietti lo schermo non lo bucava. Lui lo sfondava letteralmente. Ma non piaceva alla sinistra. Troppo poco fanatico, troppo poco retorico e col viziaccio di fare le cose sul serio ma di non prendersi troppo sul serio. Di essere serio ma mai serioso perchè uno dei suoi motti era “Posso esserti amico in un minuto ma se nun sai ride mi allontano. Chi non sa ride, mi insospettisce”.
Oggi che un infarto se l’è portato via, ad un’età peraltro certo non verde, rimarrà di lui non il ricordo di comizi politici travestiti da opere d’arte, non un dispensatore di perle per gli orecchianti e occhiuti gossipari – umbratile, da buon umbro quale era – ma la vivida immagine di un artigiano del cinema, della TV, del teatro e di quella sottovalutatissima e meravigliosa cosa che è il doppiaggio (indimenticabile il suo primo Rocky, anche se peraltro un altro grandissimo attore e doppiatore come Ferruccio Amendola lo sostituì più che degnamente) ma in generale, uno che i mestieri in cui si misurò li sapeva fare ma anche nobilitare.
Uno che ha plasmato capolavori come il celeberrimo Maresciallo Rocca – che rappresenta forse la sua consacrazione definitiva – ma prima di lui anche Febbre da Cavallo, inframezzati da un’infinita serie di successi teatrali, di continue sperimentazioni, di spettacoli da one-man show (fu una sorta di Fiorello ante litteram quando lo showman siciliano ancora portava i calzoni corti).
Un altro che lascia questo mondo, si direbbe. E purtroppo non è così.
Il suo mondo è morto definitivamente quando è iniziato il delirio della pandemia di fronte alla quale lui, a differenza del suo carissimo amico e collega Enrico Montesano (che sfidando venti e maree ha sempre apertamente manifestato il suo dissenso) non volendo forse invischiarsi nelle polemiche, aveva assunto la posa conformistica dello “stai a casa” (in realtà pare che sulla faccenda anche Proietti la pensasse diversamente) ma senza dare l’idea di prenderla sul serio, col consueto sguardo sornione di chi ti dice “Ah regà, voi lo sapete che sto a recità ‘na parte, nun me pigliate troppo sul serio”. Non sapete cari lettori quanti artisti che in pubblico dicono una cosa, in privato ne pensino un’altra.
Uno di cui da oggi in avanti si parlerà bene e gli si dedicheranno spettacoli perchè, come disse Totò, “al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però, per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire”.
Oggi c’è un cavaliere nero a cui cacare meno er cazzo, ma lui lo era per finzione scenica.
In verità, ce ne sono troppi che vanno disarcionati da questo cavallo imbizzarrito che è l’umanità.

FRANCO MARINO

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