Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

LIBRI DA RISCOPRIRE – “TOKYO DECADENCE”DI RYŪ MURAKAMI (di Matteo Fais)

“Quando faccio la doccia dopo il lavoro, le zone del sedere e della schiena sulle quali l’uomo ha versato la cera diventano calde, e se le guardo allo specchio vedo comparire piccole macchie graziose. Mi piace il dolore di queste macchie rosse. Vanno a sovrapporsi ai segni dei fuochi artificiali sulla veranda della mia casa in campagna. Sono un simbolo di felicità.” (Ryū Murakami, Tokyo Decadence, Mondadori)

Diciamocelo fuori dai denti: il lettore medio non capisce un cazzo, non riesce a distinguere tra merda e cioccolata. Per quanto riguarda la letteratura, poi, non legge libri ma storie, non discorsi ma singole parole. Non sa cosa siano le sottigliezze ed è già un miracolo se discrimina tra le diverse trame. Vede successioni di eventi come guarda le serie televisive Netflix, per intrattenersi in un universo manicheo, infantile. Attende lo scioglimento di alcuni intrecci ma, di fronte alla frase che rivela un mondo, apre uno squarcio nella tenebra dell’Essere usando una lametta da barba in luogo del machete, egli resta freddo, corre verso l’ultima pagina per conoscere la fine dell’episodio.

Non è un caso che la letteratura giapponese, con quel suo tocco lievissimo, lo snodarsi silente sui fatti dell’esistenza, da noi, non abbia mai fatto breccia. Sarebbe come chiedere a un venditore di fiori, fuori dal cimitero, di immaginare Dio partendo dai petali di uno dei mazzi che smercia e commuoversi. Per lui la vita è la brutalità di ciò che esiste, nella successione di giorni in cui non scorge alcun ordine o condanna.

Niente di strano, dunque, che un libro come Tokyo Decadence, di Ryū Murakami, uscito vent’anni fa oramai, sia finito fuori catalogo da tempo e venga venduto a cifre che oscillano, a seconda del possessore originario, tra i 25 e i 100 euro – quando non di più. Com’è giusto che sia, la bellezza deve essere pagata con la propria vita, altrimenti non è tale.

In compenso, i recensori online lo definiscono nella migliore delle ipotesi “un testo di una noia mortale”, “Un campionario di malati di mente capaci solo di annoiare il lettore”, “un’accozzaglia di volgarità e pseudo introspezione psicologica”. Poveretti! Questa gente ha già a disposizione, per il proprio bisogno di didascalici testi educativi, Cuore di De Amicis, l’opera completa di Volo, la Postorino, la Lattanzi e tutta la merda che serve a colmare la sete di buoni sentimenti progressisti che trionfano sullo squallore della realtà.

In verità Tokyo Decadence è un capolavoro che affonda nel morboso, nel sangue e nella merda dell’esistenza atroce di una metropoli senza ritegno, che ha oramai rinunciato alla gloria per il consumo dei corpi e delle anime («Grazie. A proposito, ti sei messa tu questo vibratore Tarzan nel sedere?» «Non mi sembra.» «Allora lo ha usato Yukari? Puzza.» «Non va via nemmeno se lo lavi?» «E che i vibratori Tarzan hanno tutte queste sporgenze, una volta che si sporcano di cacca è difficile pulirli, vi avevo detto di usarlo con il preservativo»).

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Questa la sopravvivenza senza filtri di puttane e papponi, mafiosi e gentaglia che gestisce agenzie per appuntamenti, tra ricche camere d’albergo e degrado, con la comparsa mai urlata di certi spiragli in cui qualcosa di compresso troppo a lungo nel profondo emerge prepotentemente (“La faccia che ho visto allo specchio era la stessa che avevo da bambina quando i miei genitori scoprivano che avevo detto l’ennesima bugia su qualcosa di molto importante. Ho toccato le gocce che scendevano dalla tempia sulla guancia: erano fredde, e ho pensato che fossero gocce di qualcosa di fondamentale che avevo protetto fino a quel momento, ma che ora si era rotto e si scioglieva”).

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Il testo, una raccolta di racconti interconnessi tra di loro come nervi convergenti sul centro del dolore, sfiora il tragico senza mai penetrarlo brutalmente in modo pornografico. Si insinua nella fredda notte giapponese, in cui l’esistenza esplode o forse implode su sé stessa, tra manie e bisogno d’amore, gesti disperati e spasimi, in cui anche uno stupratore può sovrapporre per un istante la sua ombra con quella di un uomo che aspira alla dolcezza (“Mentre guardavo le luci dei grattacieli brillare in lontananza, mi sembrava che nel cuore della notte respirasse lentamente un essere vivo, scuro e grande. Lui mi ha abbracciato e ha detto: «D’ora in poi mi piacerebbe che ci vedessimo ogni tanto. Forse ti chiederò di fare delle cose per me, cose che ora non puoi immaginare, ma se non vuoi dimmelo tranquillamente, va bene? Se mi dici di no non ti farò niente, mi basta restare qui, abbracciato con te sulla terrazza di notte…». «Hai detto la stessa cosa a Yumi?» gli ho chiesto. Lui è scoppiato a ridere e ha risposto: «A quella stupida maiala puoi fare qualunque cosa». Allora gli ho domandato «Io sono diversa da Yumi, vero?», e lui ha risposto «Sei completamente diversa»”).

Il male e il bene si attorcigliano e mescolano, come dovrebbe essere in ogni spazio letterario in cui l’ambiguità regna nell’incontro tra il paradiso e l’inferno, l’alto e il basso, la miseria quotidiana e il vertice dell’anima (“Cercavo di ricordare se fosse Brahms o Schubert, e mi è tornato in mente il pene di quell’uomo. Le lacrime hanno cominciato a sgorgare e non sono più riuscita a fermarle, anche perché la canzone era bellissima”).

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La narrativa nipponica richiede questo, di dimenticare certe facili divisioni, la possibilità di una redenzione sicura. Niente è detto in modo inequivocabile: se esiste un bene, il male non è mai il suo contraltare. Il demonio qui, quando richiede un servizio sadomaso in una camera d’albergo, parla in modo pacato, quasi placido, cercando una sua declinazione dell’empatia («Non voglio farti un interrogatorio, è solo che non mi piace fare l’amore subito, prima vorrei conoscerti un po’, così quando lo facciamo sarà meglio, capisci?»).

Certo, il lettore medio salterà sulla poltrona indignato per la merda e i pompini, i buchi di culo e le venute in bocca. In verità non vi è niente di strano nelle storie raccontate tra queste pagine, semplicemente si tratta di un mondo che non conosciamo, ma con cui vale la pena fare i conti, andando a intaccare la nostra sicura distanza borghese dallo schifo. La letteratura è questo.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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