Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

CI MANCAVA SOLO PAOLO BONOLIS SCRITTORE DI ROMANZI (di Matteo Fais)

Abominevole! Che strano tempo il nostro: non c’è più un grande scrittore come Moravia, Pasolini, neppure uno di importazione come Bukowski – almeno non con lo stesso giustificatissimo seguito. In compenso, la letteratura è stata data in appalto a soggetti esterni che con essa c’entrano quanto un gruppo di seminaristi in un film di Rocco Siffredi.

Dopo Giorgia Soleri, influencer e immonda poetessa, ci mancava solo Paolo Bonolis, mattatore del pre-cena per casalinghe e conduttore inutilmente colto della trashata nazionale, che si improvvisa romanziere.

Sembrerà incredibile, eppure, in libreria, si può trovare un testo intitolato Notte fonda (Rizzoli), in cui il noto conduttore fa una sconcertante summa di tutte le banalità più scontate e inutili del nostro tempo, con piglio da boomer che non si rassegna al pensionamento.

Paolo Bonolis, Notte fonda, Rizzoli.

Il volume è un agghiacciante romanzo che contiene 20 parole per pagina – interlinea 65 chilometri – e molti fogli con una sola frase. Si può scrivere in un pomeriggio e leggere in un paio d’ore di insopportabile agonia letteraria.

E Bonolis non ha mica fatto qualcosa di scanzonato. No, signori, ha proprio scelto di prendere il toro per le corna e affrontare, in sì e no 40 pagine di Word, tutti i grandi problemi esistenziali, oltre a quelli della modernità tecnologica. Una specie di Bignami di un Sartre o di un Heidegger afflitti da un qualunquismo che dà il mal di testa.

La storia vede due personaggi, una coppia sposata, lui e lei – non hanno nomi, manco fossero archetipi dell’uomo occidentale – che, di ritorno da un apericena, imbastiscono un platonico dialogo notturno da media borghesia romana scazzata – l’ambientazione è proprio la Città Eterna – che spazia dalla questione del divino al rapporto coi giovani, fino al complottismo più spinto. Roba che richiederebbe, data anche la struttura minimale delle descrizioni e l’andamento serrato, quasi teatrale, dei dialoghi, le palle quadre di un mostro della letteratura come Yasmina Reza in Il dio del massacro. Invece, ad affrontare i problemi dei problemi, ti ci trovi quella faccia pacioccona e bonaria che diverte la telespettatrice media, senza mai avere l’ardire di turbarla seriamente sul piano sessuale.

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E, appunto, tutto prende le mosse da Dio, la più terribile delle faccende, quella che ha snervato i filosofi nel corso dei secoli, che ha fatto loro tremare i polsi di fronte alla pagina bianca eppure oscura come il suo osceno silenzio. Guardate dove si spinge il personaggio creato dalla fantasia di Bonolis, fissando in lontananza la cupola di San Pietro: “Dio. Sto parlando di Dio. Cioè, nessuno può dire veramente se esista o meno, e cosa sia, no? In tanti ci hanno provato e mi pare che la partita sia finita in pareggio… Però, sulla base di questa entità inconoscibile, imperscrutabile, intangibile, eccetera eccetera, sulla base di questo nulla, insomma, abbiamo eretto una grandiosità, una città nella città, il Bernini, Michelangelo, le colonne, i chiostri, le statue, i giardini, i crocifissi d’oro… Voglio dire: tu non ci pensi mai?”. La vecchia zitella che fa lezione di catechismo, nella parrocchia di provincia, è più profonda, vibrante e coinvolgente, quando cerca di convincere dei giovinetti in fase prepuberale che è meglio mortificare la carne, ed evitare di trastullarsi i genitali, se si vuole davvero trovare la salvezza eterna, che il piacere è niente al cospetto del sublime amore del padre celeste.

Ma, ancora più surreale, la moglie del protagonista, avvocata, gli replica sciorinando tutto il suo spirito da Devoto-Oli tascabile: “Si chiama fede, tesoro. Deriva da fides, voce latina: credere, a prescindere dalle prove e dalle apparenze”. Disarmante! Roba che San Tommaso andrebbe incontro all’autocombustione leggendolo. Ma ascoltate la replica del marito – commercialista, tanto per saperlo: “Sai cosa diceva sant’Agostino? […]«Ama e fa ciò che vuoi”. Come non sentire l’influenza – o la flatulenza? – delle ovvietà a cui Eugenio Scalfari ha abituato l’Italia per decenni!

Fermi tutti, ancora un secondo, questa è la risposta della moglie: “Vuoi sentire la mia versione della saggezza di sant’Agostino? […] «Ama, e portami a casa, che c’ho i piedi anchilosati da ’ste scarpe”. Se non fosse che è impossibile pensare a uno scherzo, questi dialoghi si potrebbero dire vergati da Luca Laurenti, quando recita la parte del cretino – almeno lui è, più o meno, simpatico. Increscioso! Una teologia che invoca il castigo divino! E il livello di discussione è questo per tutto l’arco del romanzo. Estenuante, senza pietà per il lettore dotato di un minimo di materia grigia.

Volete un altro esempio, un’ulteriore bestemmia contro Dio e la letteratura? Eccola: “Ma perché le chiese? Se è una relazione intima, personale, interiore, a che serve la chiesa? A che serve la cattedrale? Perché tutto ’sto baraccone?”. “Perché è anche un rito. Un rito collettivo. Ci vuole un tempio. Voce latina: templum, recinto sacro…”. “Arieccola!”. “Guarda che non è per pedanteria che ti dico la radice della parola. In tutta la tua vis anticlericale sottovaluti che l’uomo ha bisogno dell’esperienza del sacro”. Ma neanche all’istituto tecnico per ragionieri! Un testo del genere potrebbe dare il colpo di grazia al povero Ratzinger, già fortemente provato dalla vecchiaia e convincerlo del perdono dell’Altissimmo, in caso di suicidio.

Ma per non tediare oltremisura, meglio chiudere, non senza però aver portato un paio di esempi di tecnofobia bonolisiana e complottismo in stile noncelodicono

“Ma tu li hai visti quei poveracci che girano tutta sera in bicicletta a portare il sushi alle coppiette spiaggiate davanti a Netflix? Lo sai che quelli lì è una app che li gestisce? È un algoritmo che regola il loro tempo? Cioè una volta c’era il sor Giulio che mandava in giro il garzone, ora c’è una app, un algoritmo, che non sa neanche che faccia hai, chi sei, che storia hai, se sei un padre di famiglia, se c’hai cinquant’anni o se ne hai venti. Sei gestito da un mostro senz’anima, una cosa di calcoli e bit, una fredda economia disumana…”. Se fosse possibile, a uno scrittore simile, con Deliveroo, bisognerebbe inviargli un pacco bomba.

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“LEI: Stanno chi? Chi sarebbero?”. “Ah… Quelli che hanno messo in piedi e che gestiscono i mercati. E i mercati non fanno prigionieri”. “A riecco il complotto. Fai sul serio o giochi a fare l’apocalittico?”. “E se fosse davvero così? Se fosse tutto programmato fin dall’inizio?”. “Una regressione collettiva basata sulla dipendenza dalla tecnologia? La vera malattia del futuro non sarà la prossima pandemia, né il cancro, ma l’ansia da dipendenza da telefono”.

Insomma, questo è il Bonolis scrittore, un autore di assordante nullità, dall’insopportabile cicaleggio filosofico, un Uan prestato alla narrativa, con uno stile da pagina personale del solito sfigato approdato su Telegram in cerca della libertà di parola. Roba da rivalutare Greta Thumberg. A paragone, Fabio Volo merita il Nobel… E non è uno scherzo: come romanziere, gli fa un culo così.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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