Il Detonatore

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UMANO TROPPO UMANO – FILOSOFIA DEL FELINO, TRA INDOLENZA E GIOIA DOMESTICA (di Davide Cavaliere)

«Signore Iddio, noi ti preghiamo affinché tu ci dia una fontana di lacrime» (San Luigi) 

Il mio migliore amico aveva due gatti, due norvegesi delle foreste, due fratelli. Dico «aveva» perché uno dei due, il più giovane, è deceduto pochi giorni fa a causa di una grave patologia epatica. Si chiamava Rufy, ma lo avevo rinominato «Straccio», a causa della sua abitudine a sdraiarsi, scompostamente, in terra. Un soprannome che era stato adottato, come il più naturale dei nomi, da tutti coloro che lo conoscevano. 

Straccio era un animale buono. Non graffiava quando il suo folto pelo veniva pettinato, piangeva quando era costretto a uscire di casa per una visita e amava essere accarezzato. Dal carattere pigro e indolente, trascorreva le sue giornate coricato sul divano o sul pavimento, con le zampe distese e gli occhi scintillanti di gioia domestica. Dormiva insieme al fratello, l’uno accanto all’altro, superstiti di cucciolate disperse. Pingue e peloso, accoglieva ogni visitatore con buffe vibrazioni della coda e miagolii, ben disposto ad accettare estranei nella sua dimora

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Adorava le crocchette e le susine, ma soprattutto le prime, che inghiottiva avidamente, cercando di prenderle al volo, prima che queste cadessero, tintinnando, nella ciotola. Amava avere la pancia piena e una luogo morbido dove potersi distendere ed essere coccolato, tanto dagli umani quanto dal fratello felino. 

Si è ammalato all’improvviso. Prima un po’ di stanchezza, poi l’ittero e la corsa alla clinica veterinaria. Dimagrito spaventosamente, miagolava avvolto in una coperta di pile, con due pupille rese enormi da qualche misterioso processo fisiologico. Nella settimana che ha trascorso lontano da casa, nelle mani dei medici degli animali, ho letto molto. Lo andavo a trovare ogni sera, col mio amico e suo fratello, suo padre o mia madre, poi tornavo e leggevo. Ho sempre preso in mano i libri nei momenti di difficoltà, essi mi servono da scudo e sostegno contro il male. Ho letto libri che sono contro la morte e l’oblio.

Il giorno prima del suo definitivo collasso, quando abbiamo deciso per la soppressione, si è alzato in piedi e ci è venuto, faticosamente, incontro. Non aveva più speranze, lo sapeva, il fegato era necrotizzato, eppure ne ha data a noi che, vedendolo così attivo, almeno per una notte abbiamo confidato in una guarigione. 

Heidegger diceva che gli animali non muoiono ma periscono. Si sbagliava. Gli animali percepiscono la loro e l’altrui prossimità alla morte. Straccio, adagiato morente nella gabbia del veterinario, stordito dalla sua condizione fisica e dai farmaci, ha reagito con le fusa alle nostre carezze. Gli ho preso una zampa e lui l’ha stretta, nel tentativo di afferrare la mia mano, come faceva quando lo tenevo vicino o sopra alle ginocchia. Come il mio cane, che mi ha atteso, traballante, sulle sue zampe magre, prima di appoggiare il suo piccolo cranio sul mio polso e spirare, Straccio ha aspettato mani calde e visi amici. 

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Abbiamo pianto in tre davanti a quella carcassa opaca e giallastra, dal ventre gonfio e dalle zampe smagrite. A pensare la morte come un fatto solo umano, non la si tiene in giusto conto. Col mio amico, a volte, ci siamo detti che il primo a morire sarebbe stato Straccio, perché era il più buono e, dunque, il più debole. Forse, proprio per questo lo abbiamo circondato di cure e sorrisi, carezze e premure. Ci ha ricambiati con le fusa fino all’ultimo. Fin dentro la morte ci siamo scambiati gesti di tenerezza. Non l’abbiamo vinta, non è nell’ordine delle cose, ma le abbiamo fatto capire che i suoi orrori non ci spaventano e non ci inaridiscono. 

Se la morte ci coglie ancora con le lacrime e lo stomaco chiuso, con il cuore spezzato dinanzi al sordo brontolio di un gatto sulla soglia, allora non ci ha vinti del tutto. Nei miei sogni vedo Straccio venirmi incontro, felice e paffuto come nei suoi giorni migliori, lo sento strofinarsi con movimenti sinuosi sulle mie gambe. Mi chino per dargli una carezza e leggo nei suoi occhi, di nuovo brillanti, una rassicurazione: «no amico mio, no, la morte non è così terribile».

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

Un commento su “UMANO TROPPO UMANO – FILOSOFIA DEL FELINO, TRA INDOLENZA E GIOIA DOMESTICA (di Davide Cavaliere)

  1. Sono anni che non ho più animali, quando morì il mio maremmano fui devastato per parecchie settimane. Decisi che avrei fottuto il fine vita con un nobile e ostinato distacco in modo che non avrebbe avuto un cazzo da ghermire come un ladro che ruba un portafoglio vuoto.

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