I MANESKIN SONO VECCHI (di Franco Marino)

Prima che scoppiasse la guerra – infatti questo articolo era preventivato per il dopo Sanremo – un mio giovane lettore mi accusò benevolmente di essere troppo anziano per capire il fenomeno dei Maneskin. Adesso che Damiano ha calato la maschera mostrando la sua reale essenza, parlarne non rischia di dare di me l’idea di quello che sotto le bombe si chiede se è più buono il prosciutto crudo o il cotto. E calcolando che a breve compirò quarantun anni, l’accusa di anzianità potrebbe anche avere un fondamento. La mia non è un’età sufficiente per iniziare a preoccuparsi di dove essere seppelliti, ché anzi non è infrequente avere ancora altri decenni innanzi a sé. Ma se raggiunto il traguardo degli “Anta”, le riviste specializzate consigliano di farsi visitare periodicamente la prostata, vuol dire che tanto giovane non sono più. Quindi l’accusa di…”giovanicidio” è fondata. Il problema è che mi viene attribuito il delitto sbagliato. Se forse sono troppo anziano per capire il successo di quell’orrida cosa che è il “trap”, tuttavia se mi si chiede di capire il successo dei Maneskin, la cosa si capovolge. Non solo sono rigorosamente convinto che ad essere vecchi siano coloro che li seguono; non solo sono fermamente persuaso della percezione che ad essere vecchi sono i Maneskin; non solo, e lo dico con grande dolore, credo che questo paese stia allevando la più deprimente generazione di vecchi travestiti da giovani che la storia ricordi; ma sono convinto che il mio totale rifiuto di seguirli – senza con questo disprezzarli, perché qualche buona canzone l’hanno scritta – sia un chiaro segno che sono ancora giovane. Magari non il segno più evidente, magari il PSA smentirà la mia euforia neogiovanilistica. Ma tant’è. Cercherò di motivare in maniera esauriente.
L’evoluzione della civiltà ci ha abituati a “teenager” come praticamente semideficienti cuccioli di uomo, incapaci di concepire un discorso di senso compiuto. Ciò è avvilente soprattutto leggendo la lettera che un Gramsci che oggi definiremmo bambino a soli dodici anni scriveva ad un amico per convincerlo a non abbandonare la scuola. Può certamente darsi, dato lo spessore di quell’intellettuale, che la sua fosse un’eccellenza. Ma non è “nostalgismo giovanofobico” evidenziare un profondo declino cognitivo dei giovani odierni rispetto a quelli dei tempi di Gramsci. E’ un fatto, con una spiegazione molto semplice: l’aumento della durata della vita ha ritardato anche il processo di maturazione di un essere umano, senza mutare il suo DNA. Attorno ai sedici anni, un uomo e una donna possono già riprodursi, che anzi a quell’età un tiro equivale ad un centro. Il testosterone di un adolescente è ai massimi livelli, la forza fisica raggiunge il suo culmine. Per poi, raggiunti i trent’anni, avviare un lento declino. In sintesi, natura umana rimane identica e pensata per una società in cui, per esempio, alla mia età si è ormai vecchi se non morti.
Viceversa, l’adolescente delle civiltà odierne vive la discrasia tra la natura che gli dice che è già in grado di farsi una famiglia, e la civiltà per la quale lui è poco più che un bambino. In questa fase, il padre e la madre, mentre per la civiltà non hanno esaurito il proprio compito di dispensatori di cure parentali, per la natura divengono perfetti estranei del giovane, di cui di fatto diventano dei rivali. Mamma gatta, dopo aver partorito il suo micino, lo caccia e lo manda a cercarsi il suo topo. Babbo gatto diventa un nemico di quel futuro micino che un giorno gli contenderà il territorio. Ma nel mondo degli esseri umani, le cose non cambiano più di tanto: il giovane per definizione lotta contro un sistema che lo relega a bambino, laddove invece il DNA gli consentirebbe già di essere adulto. Il vecchio lotta contro l’esplosione vitale del giovane che lo espellerebbe dalla società. Per il figlio maschio, il padre è un rivale più forte che occupa un territorio. Per la figlia femmina, la madre è una donna spesso ancora attraente che può persino entrare in competizione con la figlia. Soltanto che a mitigare l’odio che si scatena tra i figli e i genitori è l’evoluzione della civiltà che allungato, di fatto, la durata della vita e il percorso di emancipazione, rende i primi dipendenti dai secondi. Ma rimanendo intatto l’istinto alla ribellione, durante tutto l’arco della gioventù, nelle società civili di oggi, si cerca di rompere gli schemi, lottando contro un potere detenuto da persone più anziane. Questa è la principale causa delle famose crisi di identità e delle ribellioni su cui si scervellano gli psicologi, che quando prendono una piega patologica, sfociano nei parricidi.
Tutto questo come si concilia, finalmente, con i Maneskin? Col fatto che questi ragazzi, che profumano di gioventù, e che sono anche bravi per la verità, in realtà sono vecchi ma non lo sanno. Lo sono nel modo di esprimersi, nel modo di cantare, nella scelta dell’inglese come lingua madre della stragrande maggioranza delle proprie canzoni. Sono vecchi perché conformisti. Se si prende il Sessantotto, si osserverà che anche a voler condividere l’idea che quella grande montagna abbia prodotto un topolino, comunque fu l’era della rottura degli schemi per eccellenza, in tutto quel che portò di positivo e di negativo nelle società occidentali. Fu proprio dopo quella sbornia che nacquero – e non fu un caso – i Queen. Dell’ambiguità sessuale di quel formidabile performer che era Freddie Mercury si è detto tantissimo e forse pure troppo, come pure di quella di Elton John, di David Bowie e si potrebbe proseguire all’infinito. Ma certamente fu il leader dei Queen a spingere l’acceleratore contro il conservatorismo sessuale fino alle conseguenze più estreme (anche personali, purtroppo) cosa che per quei tempi rappresentava una vera e propria rottura di schemi consolidati. Se a quei tempi, un maschio avesse osato presentarsi a scuola con le unghie pittate, con un vestiario vagamente femmineo, sarebbe stato bullizzato e sarebbe diventato il paria del paese. Rompere il bigottismo sessuale significava davvero essere giovani. Ma Freddie Mercury non era solo ambiguità sessuale. Era scorrettezza politica. Nell’Inghilterra socialista, precedente all’arrivo della Thatcher, le sue idee neoliberiste, patriottiche, monarchiche, si scontravano contro il conformismo imperante. E infatti i rapporti tra lui e la stampa furono sempre pessimi. Il Freddie Mercury totemico di oggi, da vivo era tutt’altro che amato e incontestato.
Viceversa, i Maneskin non hanno niente di rivoluzionario. Da band di giovani vecchi pigramente adeguati al conformismo imperante, vendono la propria anima al diavolo del successo, che imponendo loro di celebrare l’ambiguità sessuale come valore, la stramaledizione di Putin come stella polare dell’odierno weltanschauung e la perorazione dell’origine antropica del riscaldamento, ordina a Damiano di vestirsi da femmina, di indossare una maglia con scritto “Fuck Putin”, presenziando al global citizing. Puro conformismo. Laddove negli anni Settanta, sulle note di artisti fantastici – che però guarda caso, invecchiando sono diventati conformisti – in quel di Woodstock si mettevano in discussione, forse anche sbagliando chissà, gli schemi su cui si poggiava la società borghese.
E intendiamoci, il punto non è che fosse tutto buono di quell’epoca, ché anzi slogan come la fantasia al potere oppure il sei politico e gli esami di gruppo, sono stati indiscutibilmente portatori di negatività. Il punto è che quella fase sociale, conquistando le leve della musica d’autore, dell’arte, rompeva gli schemi costituiti. Per questo erano amati dai giovani di quel tempo. Che poi, come pregevolmente affrescava Pasolini nei suoi scritti corsari, dietro quelle manifestazioni si muovesse il capitale, è un altro discorso: il fatto è che quegli anni furono il manifesto di uno scontro generazionale.
Mentre i Maneskin contro cosa combattono per poter definirli giovani? Oggi essere gay è una moda. A Sanremo c’erano almeno tre artisti contrassegnati dall’ambiguità sessuale, con Sangiovanni che si presentava con le unghie smaltate, con Achille Lauro e le sue allusioni sessuali, con Blanco e il suo efebico vestiario, in un profluvio ovviamente di multiculturalismo meticcio. Se negli anni Sessanta l’omosessualità di un grandissimo e dimenticato cantautore come Umberto Bindi gli valse un ostracismo che durò praticamente fino alla sua morte, oggi pare che essere gay e femminei sia il passepartout per accedere al potere. E ci si accorge della cosa soprattutto quando i media ufficiali, che trent’anni fa invece di raccontarci l’immenso patrimonio di bellezza musicale che Freddie Mercury ci lasciò in eredità, ci raccontavano con dovizia di particolari l’automatismo tra la sua omosessualità e l’AIDS. Viceversa, oggi, parlano bene dei Maneskin, decantando quanto siano bravi, quanto siano famosi all’estero (cosa vera fino ad un certo punto, Eros Ramazzotti, Zucchero, Laura Pausini, nei loro momenti migliori all’estero vendevano dieci volte di più, tirandosela dieci volte di meno) tutte cose chiaramente evocative di come i Maneskin non siano una band di rottura ma, anzi, una band conservatrice, tesa a conservare lo status quo, il conformismo. Che imponendo loro di non criticare l’ideologia omosessualista, russofoba, neoambientalista, globalista, li ripaga azionando le leve del successo. A conferma di quanto disse un tale che la dittatura in Occidente non si basa sulle punizioni ma sui premi.
La vera rottura oggi sarebbe una band di giovani che come prima cosa abbiano una bella voce, che siano dei virtuosi degli strumenti musicali, con un aspetto da persone normali, non dico in giacca e cravatta, ma da persone sobrie, che difendano i valori della patria, dell’identità, della spiritualità, che a vent’anni lavorino e abbiano già dei figli. Che insomma diffondano l’idea che per essere bravi artisti, prima ancora che dei personaggi, bisognerebbe padroneggiare gli attrezzi del mestiere. Poi sono possibili anche delle varianti sul tema. Ma il senso del discorso è che un giovane è davvero tale se, per definizione, va contro il potere. Anche sbagliando. Non importa che tutto ciò che lui esprime sia giusto. L’importante è che si ribelli al potere. Negli anni Settanta si bruciavano le automobili, le chitarre, simboli del capitalismo. Oggi una band davvero giovane brucerebbe le mascherine, le siringhe, i pannelli fotovoltaici, simboli di un neoumanesimo figlio illegittimo e inconsapevole della borghesia capitalistica di ieri. Perché essere giovani significa lottare contro il potere. Se lo si applaude, se lo si blandisce, se ci si va a letto, non si è giovani. Si è solo vecchi travestiti da giovani, con una pelle magari liscia, ma con un cervello per cui è già pronto il posto presso qualche ospizio. O magari la carica di presidente di qualche nazione. Purché sia in lotta con Putin, si capisce. Perché, come nella barzelletta, se sei gay e sei filoucraino, allora sei gay. Se sei gay e putiniano, allora non sei gay. Sei ricchione.
FRANCO MARINO
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Grande articolo Franco. Applausi
Se questo gruppo anziché essere in carne e ossa fosse un ologramma per affabulare i fans la gente non noterebbe nemmeno la differenza. Tutto quello che vediamo attorno attraverso i media somiglia ormai a una sceneggiatura di Hunger games.
Non è affatto vero che i giovani sono per natura contro il potere. Semmai è vero il contrario. Il giovanilismo è sempre stato l’asso nella manica dei regimi e il giovane, che è generalmente schematico e arrogante nel modo di ragionare e soprattutto molto vulnerabile alla propaganda, ha sempre aderito con entusiasmo alle peggiori ideologie politiche. La differenza la fa il carattere e poco conta l’età.
Che il giovanilismo sia l’asso nella manica dei regimi, l’ho detto anche nell’articolo.
Dall’alto…o dal basso..(dipende dal punto di vista)..dei miei 73…hai perfettamente ragione..
Anche negli errori contestavamo… allora…
Mi sembrano solo dei miseri scaltri che servono al popolo panem et circenses, come tutti i gruppi del passato, del resto. A tal proposito si veda l’oscura vicenda della formazione delle varie band a Laurel Canyon. Aveva già c’entrato il punto Pasolini
Il nulla musicale mascherato alla meno peggio da contestazione politicamente ineccepibile… nutrimento cardine per sottocultura imperante oramai da decenni… con evidenti risultati…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/
Condivido il conformismo e in finto ribelismo dei Maneskin che ho immediatamente notato quelle pochissime volte che li ho visti in TV e che personalmente mi è rivoltante. Hanno aspetto e comportamento da degenerati (addirittura foto di gruppo nudi davanti allo specchio, cosa non si fa per fama e denaro, narcisisti e materialisti….) ma sono esaltati da questa società malata che promuove questi disvalori.
Non sono d’accordo sull’obbligo per un giovane di ribellarsi al potere per essere definito tale.
I giovani di default non si ribellano per nulla. Sono umani come gli altri, solo più immaturi. I sessantottini e i vari protestanti di sinistra degli anni successivi erano dei pecoroni che seguivano il potere, non lo attaccavano. Erano utili pedine delle elite di sinistra che dopo la seconda guerra mondiale hanno progressivamente conquistato le istituzioni.
I giovani sono ultraconformisti, basti pensare alle mode che improvvisamente scoppiano e poi scemano per poi venire sostituite da altre. E le mode come nascono? Individui con alto status sociale fanno qualcosa e le persone intorno a loro iniziano ad imitarle.
Per quanto riguarda la trap dicevano lo stesso del punk cioè robaccia senza arte né parte. Il bello era che potevi mettere su una band e delle canzoni con tre accordi, rischiando di riuscire a vivere di quello, assolutamente imperdonabile 😁
Sulle critiche ai Maneskin sono perfettamente d’accordo, infatti li ho personalmente ribattezzati “Mainestream”…
E sono pienamente d’accordo con le vostre implicite critiche a ciò che essi rappresentano.
Tuttavia non sono d’accordo con la parte finale dell’articolo, la “giovinezza” non è necessariamente sinonimo di “lotta al potere” e simili.
Anzi, ritengo che spesso (anche se non sempre) certe forme di anticonformismo siano più conformiste del conformismo stesso, o quantomeno ne siano dei derivati.
Specialmente se il fine ultimo di queste è la mera lotta allo status quo, senza aver verificato che magari lo status quo (per esempio) in quel determinato caso è l’alternativa migliore.
La giovinezza secondo me è la traduzione in atti degli impulsi vitali umani che poi l’età via via sbiadisce, ammortizza, spalma…
Comunque bell’articolo, complimenti.