Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

EXIT DI SIMONE DI STEFANO, OVVERO ANCORA VOLETE UN PARTITO? (di Franco Marino)

Periodicamente un nuovo partito fa la sua comparsa nel proscenio e ci si chiede cosa pensarne. Stavolta è la volta di Exit, la nuova creatura di Simone Di Stefano, ex-leader di CasaPound, da cui si è distaccato per dissidi interni. E in tanti si chiedono le prospettive di questa creatura, come di quelle di Matteo Brandi, di Paragone, di Fusaro. Personaggi che si sono conquistati un certo seguito, anche in virtù di indiscusse capacità comunicative. Ma ognuno di questi interrogativi presuppone una fiducia nel sistema democratico, che personalmente non ho, ma soprattutto che basti dire di essere contrari a qualcosa di negativo – e di converso favorevoli a qualcosa di positivo – per poi essere davvero in grado di realizzare le promesse. Cosa che non è affatto conseguenziale come molti credono. Per cui talvolta sul proscenio si affaccia qualche nuovo capopopolo desideroso di “monetizzare” il proprio consenso con l’approdo sui talk-show mainstream di dissidenza, o con la fondazione di un ennesimo partito, e tutti che tributino entusiasticamente il proprio plauso. Poi il capopopolo si imborghesisce, mitiga di molto i suoi toni, salvo accorgersi che è molto meglio nutrirsi del sistema che abbatterlo. O forse viene minacciato, chissà. Il fatto è che il giochino comincia ad essere scoperto. La parola “gatekeeping”, con cui indicare quei personaggi o quei partiti che fingono di lottare contro il sistema mentre in realtà ne sono funzionali, è sempre più frequente, sintomo di una progressiva presa di coscienza. Né sul piano istituzionale le cose vanno meglio. La Meloni cresce sì, ma senza fare il botto atteso, e per il 2023 si prevede un forte aumento dell’astensione. Ma andiamo per ordine.

Il programma di Di Stefano è un concentrato di buone intenzioni. No all’obbligo vaccinale, sì all’uscita dall’Euro, no alla schedatura digitale. Chi potrebbe essere contrario? Il problema non è se Di Stefano voglia o meno queste cose. Supponiamo che le voglia davvero, cosa di cui non si ha motivo di dubitare. Come le realizzerà? Come conquisterà il consenso necessario ad ottenere il voto? Come resisterà agli attacchi del sistema che prima ancora di trovare il modo di farlo fuori, cercherà di emarginarlo? Quesiti ineludibili perché mostrano la tendenza tipica dell’elettore di non porsi minimamente il dilemma circa le capacità attuative di un programma da parte di una determinata classe dirigente. Peculiarità, si noti bene, non solo di Di Stefano, che è in assoluta buonafede, ma di chiunque compaia nel proscenio. Tutti strillano “abbiamo un programma”, e il massimo che fanno è dimostrare che il programma è “buono” se descrive le cose che vorrebbero gli elettori. Con lo stesso presupposto, potrei dirvi che dal momento che sono un appassionato di pugilato, sarei in grado di salire sul ring contro Mike Tyson. Che ci vuole? Di incontri ne ho visti tanti, in teoria saprei come si combatte un incontro: “Schiva il Jab! Gancio destro! Gancio sinistro! Colpisci e spostati! Muoviti sulle punte! Colpisci e spostati!”. In teoria. Nella pratica, se salissi sul ring, dopo meno di venti secondi verrei gonfiato come un cotechino a Capodanno. Non basta sapere che in una determinata circostanza si deve usare il gancio invece del montante. Occorre avere l’allenamento necessario per affrontare un pugile, occorre l’esperienza, la competenza pratica, il mestiere, in generale tutto quel che distingua il pugile dal semplice appassionato, che magari parla per sentito dire, peggio ancora se imbeccato da qualche cronista. E dunque, fuor di parabola, il vero politico dal capopopolo digitale, abile a capire cosa fa incazzare gli elettori e dunque assecondarne l’onda, ma del tutto incapace di porvi rimedio.
Dire no all’obbligo vaccinale, no all’Euro, non sono cose che si decidono e dunque si fanno. Occorrono procedure ben precise, un piano altissimamente strategico in entrambi i casi, che preveda la capacità di affrontare ritorsioni pesantissime, che possono finanche toccare la sfera familiare dei parlamentari. Qualcosa che non è possibile seguendo le regole del giuoco democratico attuale. Nella Russia che tanto piaceva agli occidentali e che molti rivorrebbero, quella smembrata dagli squali della finanza angloamericana, i parlamentari della Duma che si opponevano ai deliri etilici di Eltsin, entravano in Parlamento con le migliori intenzioni. Dopodiché, gli agenti della CIA cercavano di corromperli. I più venivano corrotti, gli altri venivano minacciati nei propri affetti. E desistevano. In pratica, chiunque voglia fondare un partito, la prima cosa che dovrebbe fare è dotarsi di una manovalanza di gente nascosta che assicuri protezione fisica a chi dovrebbe lottare con lui. Se qualcuno crede che Di Stefano sia in grado di garantire tutto questo, auguri. E tuttavia è lecito rivendicare il diritto allo scetticismo.

Ma anche immaginando che possa riuscirci, c’è un altro punto che molti sembrano trascurare: la conquista del consenso, attraverso la reale conoscenza degli elettori, su cui la persona con un minimo di esperienza, non si fa illusioni. La patria, gli ideali, l’arditismo, la passione per il tricolore, sono cose che interessano l’1% delle persone. Il restante 99% vota per interesse. Se molti hanno creduto al delirio “onestista” dei grillini non è perché ad un tratto quegli stessi elettori che per decenni hanno votato ladri e mafiosi, nonostante fossero tali (anzi, in qualche caso, proprio perché tali) siano diventati onesti. E’ che qualcuno, di fronte alle prime crisi, ai primi licenziamenti, ai primi servizi sociali saltati, li ha criminalmente convinti che tutto questo dipendesse dal ladrocinio dei politici, mandando in galera e depredando i quali, quei soldi sarebbero stati redistribuiti alla gente, attraverso il reddito di cittadinanza. Il 33% del 2018 al Movimento 5 Stelle ha solo questa spiegazione: molti nullafacenti, specialmente del Meridione, si sono illusi che la vittoria dei pentastellati coincidesse con l’arrivo di una valanga di soldi. Analogamente, il dimezzamento dei voti ha come unica spiegazione che, grattata la superficie della propaganda, il fantomatico reddito di cittadinanza, in realtà non è che un reddito minimo erogato solo in presenza di condizioni ai limiti dell’indigenza. Di certo, ben lontano dal reddito di cittadinanza effettivo, ossia soldi dati a tutti, a prescindere, sempre, per il semplice fatto di essere cittadini, da cui origina la definizione. Così come ci si è presto resi conto che il grosso delle spese non è nella politica centrale, che anzi ha praticamente le mani legate, ma in quella locale, del tutto fuori controllo e dove si annida la vera corruzione. In parole povere, se un capopopolo digitale si aspetta di fare la rivoluzione attraverso tonitruanti slogan da mane a sera sui social, o qualche comparsata sui social, o magari di organizzare una macchina analoga a quella dei Cinquestelle, presto scoprirà che l’elettore vota sempre e comunque soltanto chi gli garantisce vitto e alloggio. Qualcosa che Di Stefano ha già sperimentato nel 2018: sì, a molti CasaPound piaceva, molti erano affascinati da questo partito un po’ fascista, un po’ no. Ma poi votavano per l’usato sicuro. Per il clan. Perché un partito acquisisce consensi se assomiglia ad un clan mafioso. Vive di favori, di posti di lavoro procurati, di problemi concreti risolti. E per realizzarli, crea una struttura che sia fatta di professionisti. Si assicura il consenso degli imprenditori, dei lavoratori. Di medici, se vuole lottare contro l’obbligo vaccinale. Crea in sostanza reti economiche, sociali, tutte cose che io oggi non vedo in questi partiti antisistema. Abilissimi ad organizzare rivolte e manifestazioni che si risolvono in un nulla di fatto, i cui unici dividendi vanno ai vari capi e capetti, pronti per andare nei talk-show o magari anche in qualche istituzione politica. Ma di sicuro, non al disoccupato o alla partita IVA in bolletta.

Il problema non è Di Stefano, che pare che uno voglia fare un articolo contro di lui. Niente di tutto questo. E’ che ormai la gente ha capito che da questa situazione non se ne uscirà con le buone. Perché è del tutto impensabile che dal ricatto di una mafia globale si esca seguendo regole locali, oltretutto disegnate da questa mafia. Se Draghi e compagnia introducono in Costituzione, saltando ogni regola, che si possono sospendere i diritti dei cittadini per ogni fottuta causa emergenziale, mi spiegate che tipo di opposizione democratica si può pensare di condurre?
Poi magari si scopre che Di Stefano, o Brandi, o Paragone hanno un’agenda nascosta, con assi nella manica che nessuno di noi avrebbe mai sospettato e con un sommerso di classe dirigente pronta a tributare loro il consenso necessario a fare l’impossibile. Se tutto questo accadrà, avranno le nostre scuse e il nostro sostegno.
Ma fino a quel momento, dopo anni di prese in giro, un po’ di scetticismo è permesso? O si infastidisce qualcuno?

FRANCO MARINO
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6 commenti su “EXIT DI SIMONE DI STEFANO, OVVERO ANCORA VOLETE UN PARTITO? (di Franco Marino)

  1. Devo purtroppo essere d’accordo con l’articolo. Conosco Di Stefano, la sua capacità comunicativa, le sue idee “rivoluzionarie” e, soprattutto, la sua onestà intellettuale. Un uomo che ha spesso pagato in prima persona la propria coerenza. Ma, ahimè, abbattere il Sistema attraverso regole imposte dal Sistema stesso è impresa praticamente impossibile. Appena ti azzardi e dire “no euro” o “no vax”, vieni immediatamente ghettizzato con la lettere scarlatta sul petto (lo hanno fatto anche con un premio Nobel, figuriamoci). Ma voglio comunque avere speranza. Che il popolo, in qualche maniera, si svegli dal torpore. Che un nuovo miracolo tipo Vaffa Days sia possibile. Che la gente cominci a recuperare fiducia nel proprio voto e nella propria azione. Uno alla volta. Persona dopo persona. Le premesse programmatiche sono ottime. Il leader anche. Non sprechiamo l’ennesima occasione!

  2. Al momento, non ci sono movimenti o partiti in grado di soddisfare le nostre esigenze.
    Che in primo luogo…cacci gli Americani dal Nostro Paese .

  3. Per poter fare qualcosa bisogna allora aspettare che crolli tutto, perché finché ci sarà ancora qualcosa da sfruttare, quel 99% ci farà affidamento sperando di cavarsela

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