Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

IL GREEN PASS COME CONTO DI OTTANT’ANNI DI FINTO BENESSERE (di Franco Marino)

Ormai molti anni fa, il giorno prima di lasciare la casa al mare dove eravamo andati in fitto per le vacanze, trovai per puro caso, in un libro dimenticato dai proprietari, la storia di un giovane uomo fresco di laurea e appena divenuto avvocato. Conobbe un’affascinante donna molto più grande, accomodante, dolce, che di costui si innamorò follemente, tanto da trattarlo come un dio e riempirlo di denaro e di regali. Non appena il giovane aprì il suo studio, lei piuttosto facoltosa e influente, lo fece letteralmente decollare nella sua carriera. Ad un certo punto, arriva la variabile impazzita: il giovane incontra una bellissima coetanea ed è amore a prima vista, reciproco. L’uomo conta di confessarlo alla sua attempata fidanzata, contando sulla sua benevolenza. E invece (“meglio nelle mani di un assassino che nei sogni di una donna in calore”) per lui inizia un autentico calvario. La donna lo denuncia, cercando di far passare il messaggio che lui l’avesse solo sfruttata per danaro, ottenendo che il giovane praticamente prima si riduca sul lastrico e poi venga rinviato a giudizio. In realtà lui non è che la volesse sfruttare: semplicemente era uno squattrinato, proveniente da un’umile famiglia e si era adagiato su quell’aiuto giunto così inaspettato, lui che per studiare aveva fatto tantissimi sacrifici, lavorando anche la sera. Così decide di farsi difendere da un anziano avvocato al quale racconta la sua storia. E questi, dopo averlo ascoltato con attenzione, gli dice più o meno così “Quando tu venivi riempito di danaro, non ti ponevi il dubbio che tutta questa generosità non fosse in qualche modo interessata? Credevi davvero che una donna ti desse così tanto danaro gratis? Quella signora ti ha comprato e tu ti sei venduto. E’ ovvio che ora ti tratti come un oggetto”. Come finì la storia non l’ho mai saputo, anche perché, come dicevo, non essendo mio e dovendo andarmene il giorno dopo, quel libro non potevo portarmelo. Ma quella parte iniziale e quel dialogo mi rimasero impressi proprio per l’altissimo tasso di realismo in esso contenuto. E tuttavia non ricordo né il titolo né l’autore e se qualche lettore volesse delucidarmi, avrà la mia gratitudine.

In realtà, quella che sembra una storia di (a seconda dei punti di vista) perfidia o di vendetta, degna più di una telenovela – e alla quale guardare con quello che i tedeschi definiscono “fremdscham”, cioè l’imbarazzo che proviamo nel vedere qualcuno in una situazione molto imbarazzante – è molto più frequente di quanto non si creda. Non necessariamente soltanto nei rapporti sentimentali. Quando si riceve un vantaggio non derivante dalla fatica psicofisica di procurarselo o, peggio ancora, si diventa miliardari senza addirittura far nulla – cioè vincendo alla lotteria – non è raro sviluppare una totale allergia al sacrificio psicofisico e alla noia, proprie di un sudato successo. E dunque non di rado il calciatore ricco di talento che in fin dei conti non fa altro che proporre la sua destrezza in campi più prestigiosi di quello sotto casa, o colui che ha vinto alla lotteria, finiscono sul lastrico. Il self made man diventato ricco per meriti propri, sapendo quanto ha dovuto faticare per conquistare un posto al sole, sarà sempre oculato, avrà sempre paura di spendere dieci euro di troppo e manterrà sempre un profilo basso. Ma non di rado i figli, che quel benessere non lo hanno meritato, iniziano il declino di ciò che lui ha costruito, che verrà completato dai nipoti.
Proprio pochi giorni fa sono venuto a sapere di una persona che conoscevo di vista, della mia città, poco più grande di me, studente di medicina, che dopo aver perso i genitori per cancro, ha dilapidato tutto il suo patrimonio e finendo in miseria. Oggi è un barbone. Una storia che, essendo sia la mia che la sua, una famiglia borghese, ho visto molto vicina. E per quanto io sia tutto il contrario del “mani bucate”, non è certo escluso che una gravissima evenienza, se mi cogliesse impreparato, mi rovini. E invece quando mi accorgo dello stupore di molti italiani di fronte ad una cosa oscena come il green pass, della criminalizzazione del dissenso che si fonda sull’idea che certe cose siano troppo brutte per poter essere vere, del fatto che si rischi che da un momento all’altro invasori stranieri possano distruggerci, mi rendo conto di quanto avvilente sia la mancanza di realismo del mio popolo. E intendiamoci: l’idea di una pandemia come complotto per sterilizzarci, del riscaldamento globale come pretesto per portarci via diritti e denari, può essere vera o infondata. Ma la base del consenso e del successo di cui gode il debunking, è che una cosa possa essere troppo brutta e troppo assurda per essere vera.
Non so se, per dire, gli attentati dell’Undici Settembre siano opera di terroristi o un auto-attentato. Non ho né le competenze per dirlo né quella storia mi è mai interessata più di tanto. E tuttavia è interessante socialmente osservare il grande successo di cui gode il debunking che si fonda sulla narcosi collettiva che cercano molti lettori, sul voler credere che le logiche che animano le dinamiche umane siano troppo indigeribili per essere vere. L’Undici Settembre è stato un autoattentato? Ma vi pare mai possibile che un popolo possa, nell’interesse di 350 milioni di persone, sacrificarne 4000? E’ troppo brutta come cosa per essere vera! Questo pensa il visitatore di un sito di debunking, non rendendosi conto di sostenere un’autentica scemenza. Chiudere gli occhi di fronte alle potenzialità di una minaccia, di un inganno, di un complotto perché ci disegnano uno scenario troppo brutto per essere vero, è mille volte peggio che temerne senza avere ragione. Il semplice fatto che esista una branca della medicina chiamata “oncologia infantile” ci ricorda tristemente che il brutto può essere bruttissimo e nondimeno essere vero.

Dunque, l’arrivo del covid in tutte le sue declinazioni sociali, non mi ha minimamente sorpreso. Se c’è un modo per farsi odiare dai lettori, si va sul sicuro se si dice “Ve l’avevo detto”. Ancor più se si riferisce che in tanti ci contattano dicendoci “Avevi ragione tu. Avevi capito tutto”. Cose che evito accuratamente di fare, tranne quando non deriva da una vanteria ma dall’esatto contrario, dire ai miei amici lettori che se a certe cose è arrivato un fesso qualsiasi, di media cultura, ci poteva arrivare chiunque. Non ho dovuto attingere ad una genialità o ad un’intelligenza che non ho. Né tantomeno possedevo il dono del vaticinio. Mi è bastato usare la logica e, semplicemente, analizzare i dati, puri e semplici. Quali?
L’Italia ha un debito mostruoso, il terzo del mondo, senza essere la terza economia. Non abbiamo materie prime e siamo costretti a comprarle da paesi molto più forti di noi. In teoria saremmo in avanzo primario, cioè al netto degli interessi del debito, guadagniamo più di quel che spendiamo. Ma quel debito e dunque quegli interessi ci mandano il bilancio in passivo, obbligandoci a dipendere dai mercati, in un circolo vizioso che ormai è ben noto. In queste condizioni, tecnicamente siamo un paese fallito. Dipendiamo da potentati economici sovrastatali che potrebbero metterci a capa sott’acqua e farci morire di asfissia nello stesso tempo necessario per annegare un qualsiasi essere vivente. E già da prima del covid, il nostro paese navigava a vele spiegate verso la sudamericanizzazione dell’economia e della democrazia. Un quadro drammatico non ancora materializzatosi soltanto perché il creditore teme la concorrenza di altri creditori pronti a subentrargli e dunque non vuole far fallire i suoi debitori ma solo prendergli sotto banco tutto ciò che hanno.
Nonostante ciò, per ottant’anni, l’Italia continuava a mantenere un tenore di vita ben superiore alle condizioni di un’economia in crisi. Ci vuole un genio per capire che prima o poi un creditore bussa alla porta battendo cassa? Se poi si è debitori non di un galantuomo ma di un criminale, c’è anche il rischio che questi se ne approfitti e usi la nostra situazione debitoria per toglierci tutto quel che abbiamo, quand’anche fosse ben superiore all’entità effettiva del debito, attraverso la promessa di darci altri denaro. Non bastasse questo, siamo anche un paese senza servizio militare, senza atomica, senza materie prime. Perché da bravi castrati, aborriamo l’idea che si debba andare a colonizzare qualche territorio africano in nome di un finto egualitarismo che è del tutto contrario alla natura umana, anche perché l’Africa è piena di gente che odia l’Europa e sarebbe disposta persino a farsi uccidere pur di farci pagare certe epopee storiche del passato. Solo noi europei abbiamo questa mania della beneficenza, l’idea che basti pagare un obolo per curare problemi umanitari che possono essere risolti solo geopoliticamente. Infine, ci siamo convinti che la democrazia sia qualcosa di pacifico, giuntaci dall’alto senza sangue, senza violenza. E invece dalla storia ci arrivano infinite indicazioni di come l’albero della democrazia e della libertà possa essere fertilizzato solo dal sangue dei tiranni.

Ottant’anni fa abbiamo perso una guerra e nel modo più ignominioso e ciò nonostante si è aperta da quel momento una lunga fase di benessere e di intangibilità di diritti civili e sociali propri non di un paese che si è fatto disprezzare dal mondo intero ma di un paese vincitore, quale non siamo stati, in nessun momento. E senza neanche provare a chiederci quale fosse il reale costo. Il che non deve sorprendere, se c’è ancora qualcuno che vuole bersi la favola che “i partigiani ci hanno liberati dal fascismo”. Per cui, quel giovane avvocato, amante della signora facoltosa e influente, non era un caso isolato da letteratura ma semplicemente un fesso come chiunque, quando riceve qualcosa di gratis, non si chieda quale sia il contraccambio. Noi occidentali stiamo ricevendo la giusta punizione di ottant’anni di sonno profondo. La nostra vecchia amante, America, ci ha nutriti per un suo tornaconto. Venendo meno quel tornaconto, ci sta lasciando nella fanghiglia della miseria e della violenza, mentre aneliamo un ritorno ad un paradiso soporifero che era tale solo perché a spese dell’amante. E c’è solo da sperare che al risveglio, nudi nel freddo del mattino albeggiante, si sappia come muoverci per trovare vitto e alloggio.
Il Green Pass non è una follia capitata per caso ad un popolo altrimenti felice. E’ il conto di ottant’anni di diritti sociali, civili ed economici. Pagato da altri. Che ora battono cassa.

FRANCO MARINO
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7 commenti su “IL GREEN PASS COME CONTO DI OTTANT’ANNI DI FINTO BENESSERE (di Franco Marino)

  1. Come sempre esaustivo nel trattare l’argomento. È giunto così il momento di pagare il prezzo, e verseremo lacrime.

  2. Il bello è….che qualcuno pensa, di contare ancora, in ambito internazionale.
    Mentre ci tolgono i gioielli industriali dalle mani
    E non solo quelli.. Ko

  3. Peccato che, per perorare la tua versione, in un attimo hai buttato nel cesso tutto il sudore e la fatica che molti della generazione uscita dalla guerra ci ha messo per costruirsi un futuro. Evidentemente fai parte di una generazione che non ha avuto nessuno che glielo raccontasse veramente. Non che una parte della tua analisi non sia condivisibile, ma il tuo amore per un cinismo inutile che ti fa credere di essere più figo degli altri ha reso tutto troppo semplicistico per non essere, oltre che storicamente discutibile, ingiusto nei confronti di tanti, troppi. Non è con persone che confondono il cinismo con la lucidità e non si accorgono di subire e assumere la stessa logica dei loro carnefici che si potranno cambiare le cose.

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