ORA CHE GOMORRA E’ FINALMENTE FINITA (di Franco Marino)

Quando penso a Saviano, mi viene in mente tutto ciò che detesto in un intellettuale e in una persona. La spocchia, l’autocompiacimento del martirio, i modi di fare vagamente ieratici da santone, più il culto della personalità costruitogli attorno per edulcorarne la narrazione. Il popolare scrittore napoletano da anni campa di rendita sul suo romanzo e tutto quel che ne è venuto dopo non è certo all’altezza di Gomorra, ammesso che la sua opera ammiraglia lo sia. E pur tuttavia l’antipatia di un autore non deve farci velo e deve consentirci di trovare la serie di Gomorra per il capolavoro che tecnicamente è, senza spostare di un’oncia la sgradevolezza del suo creatore. A patto tuttavia di saperla inserire nel giusto contesto: non un’opera del neorealismo napoletano ma una pura favola noir senza alcun aggancio con la realtà che, in quanto tale – così irreale da doverla riempire di riferimenti gergali, aneddotici, e circondarsi di attori che, in alcuni casi, sono galeotti anche nella loro “vita vera” – finisce inevitabilmente per sfociare in un preteso realismo molto cosmetico e poco sostanziale. Ben scritto certo, ben congegnato da tecnici che sanno come si scrive un prodotto di quel tipo, senz’altro. Ma che ripropone lo stantio fiume carsico della narrazione del Bene rappresentato dallo Stato e del Male personificato dalle mafie, sfociando così ancora una volta nel mare del suo irrealismo scenografico. Che soprattutto in era covid appare in tutta la sua sarcasticamente sorridente ingenuità.
Naturalmente, questa critica non metterà d’accordo tutti, anzi direi quasi nessuno, in quanto da un lato non liscia il pelo ai fan del camorrologo, tutti allineati ai diktat del politicamente corretto, ma dall’altro non pettina nemmeno le becere ostilità preconcette degli antisavianisti, che forse dal titolo si sarebbero aspettati un profluvio di insulti nei suoi confronti.
Nulla di tutto ciò. Gomorra la serie, lo ripetiamo, è sul piano tecnico una signora fiction, che io personalmente ho apprezzato moltissimo. Costruita da tecnici del mestiere che sanno come si confeziona un prodotto di quel tipo. E recitata da attori che sebbene, salvo pochissime eccezioni, non vadano oltre la cinta daziaria del caratterismo localistico, senza nessun vero talento attoriale (tranne forse Marco D’Amore, l’Immortale) ma siano semmai bravi mestieranti del teatro partenopeo, tuttavia risultano perfettamente calati nel contesto scenico e dunque pienamente credibili.
Anche le critiche di stampo sociologico sull’opera si basano su una serie di errori che ottengono il risultato di toglierne la credibilità. Quando per esempio si dice che la serie sia diseducativa e possa affascinare tanti giovani borderline inducendoli a seguire l’esempio dell’Immortale e di Savastano, si fa la critica meno intelligente che si possa proferire sul tema. Intanto perché se può essere vero che l’abitante borderline di Scampia o di Ponticelli possa essere attratto dai personaggi iconici di Gomorra, questo dipende dal fatto che da quelle parti lo Stato non c’è, salvo per rompere le palle e solo a quelli senza santi in paradiso, questa è la realtà dei fatti. Ma soprattutto perché in Gomorra l’intento educativo c’è ed è proprio questo a toglierne la credibilità. Scrive una giudice, Linda D’Ancona: “Non è certo piacevole lavorare tutto il giorno ad “amministrare giustizia” insieme a tanti altri colleghi bravi e solerti, per poi vedere che la nostra tela di Penelope di notte viene disfatta da altri, senza che vi sia l’ombra del nobile intento attribuito da Omero alla moglie di Ulisse”. Dimentica quel magistrato che il suo ruolo non è quello di costruire tele di Penelope. Sia perché esula dal suo lavoro di giudice, in quanto tale chiamata unicamente ad applicare la legge e basta, fosse anche la più ingiusta, dato che quella tela la devono costruire la politica eletta e la cittadinanza, non un funzionario statale. E poi perché una fiction, come una qualsiasi opera artistica, non dovrebbe educare ma mostrare. Altrimenti diventa propaganda. E sia che educhi o che mostri, dovrebbe essere credibile. E Gomorra non lo è per due ragioni: le città italiane da anni sono nelle mani delle mafie straniere. Napoli da anni è in mano ai nigeriani. Come del resto Genova è in mano a peruviani ed ecuadoregni, Firenze in mano ai senegalesi, Milano in mano ai cinesi e Roma in mano ai rom. Le grandi famiglie mafiose italiane sono finite. Altro che Genny Savastano o l’Immortale di Secondigliano, ma fateci il favore. Non che si voglia rivendicare un patriottismo criminale, sia chiaro. Ma è un fatto che chiunque subisca reati dai nuovi mafiosi multietnici, si vede rimandare indietro dalla polizia con un nulla di fatto. Gente di cui non si sa nulla, che non viene mai processata. In più, non è vero che chi fa la vita del camorrista o del mafioso, vive sempre da precario, col rischio di ritrovarsi una pallottola in testa. I grandi bagni di sangue – ce lo insegnava Giovanni Falcone – sono propri soltanto delle situazioni conflittuali. Per il resto, il crimine organizzato cerca la pace e la concordia con lo stato. Sempre.
E soprattutto, i mafiosi, se sanno “misurarsi la palla”, fanno una vita meravigliosa. Ricchi, riveriti, protetti da uno stato che ufficialmente li criminalizza ma poi in privato spartisce con loro il potere sul territorio, patrocinando i loro traffici illegali, salvo poi ogni tanto fare qualche retata dove al fresco finisce soltanto chi cerca di farsi un giro proprio.
In sostanza, il problema di Gomorra non è quello di, come scrive sempre la dottoressa D’Ancona, non prendere posizione. Perché la posizione presa da Gomorra è chiarissima: i mafiosi sono destinati a fare tutti una brutta fine. Peccato che sia una cazzata. Perché di mafiosi che muoiono a novant’anni, in ottima salute e al sicuro come fossero funzionari statali, è pieno il mondo criminale.
Soprattutto, la lotta tra lo Stato e la mafia non è tra il Bene e il Male, ma tra due stati. E talvolta, anzi, il Bene lo fanno i mafiosi e il Male lo fa lo stato.
La mafia ha successo perché gode del genuino consenso del territorio, non solo della paura delle bombe da parte di imprenditori che poi casomai assumono a nero e licenziano di punto in bianco, salvo poi pretendere di assurgere a vittime. E questo consenso origina dall’inefficienza e dalla mancanza di credibilità di uno Stato che ha promesso troppe cose – che non può mantenere – ad una cittadinanza che, delusa, si rivolge alla sommaria e spiccia efficienza del metodo mafioso, scoprendola attraverso la vicinanza del punto di riferimento dello “stato mafioso”, il boss. Non capendo che il minimo comune denominatore dello stato e della criminalità – cambia il metodo ma l’origine è la medesima – è la ricerca del protettore, del cavaliere salvatore. Che, va da sé, si fa ampiamente pagare il disturbo. O con le tasse o col pizzo. O requisendo le libertà individuali. Vi ricorda qualcosa?
E’ questo che essenzialmente non viene capito. Non solo da nessun professionista della lotta al crimine organizzato. Non solo da una stampa a caccia di sensazionalismo. Ma anche da quella parte di cittadinanza che, forse per conformismo, decide di combattere le mafie a suon di moralistici strali. E a chi ribatte che le mafie danno servizi agli affiliati mentre lo Stato fornisce servizi per l’interesse collettivo, è sufficiente ribattere che anche le mafie lo fanno per la collettività, la loro. Mentre è lo Stato, con il green pass, a rivendicare una differenza tra “noi” – gli affiliati – e “loro”. Proprio come i mafiosi.
Gomorra, nell’era del covid, dei runner perseguitati perché osano uscire fuori di casa, dei padri di famiglia che rischiano di perdere i propri figli se non li vaccinano, sembra destinata a chiudere, forse per sempre, il non lusinghiero capitolo della moralistica narrazione criminale. Perché non più credibile, al di là degli intercalari iconografici. Lo chiude con un’opera che rimarrà negli annali per ricordarci, se un giorno usciremo dall’incubo globalmente, medicalmente e politicamente corretto, quanti fessi abbiano creduto alla favola della lotta del Bene contro il Male. E quanti allocchi ancora credano che i veri mafiosi siano un contadino siciliano semi analfabeta e un povero orfanello scampato ad un terremoto. E non uno stato che, come i mafiosi, estorce il consenso delle sue vittime. Spacciandolo per protezione. Proprio come i criminali che finge di insegnarci ad odiarli.
E’ stato bello vedere Gomorra. Sarà ancor più bello non rivedere più fiction di questo tipo. Perché soprattutto dopo che il covid ha sfatato molte false convinzioni, a partire dall’impotenza dello stato – che invece, quando vuole, è potentissimo e soverchiante – la narrazione antimafiosa non ha più credibilità. Mentre ieri Marco D’Amore (l’Immortale) e Salvatore Esposito (Genny Savastano) cadevano, per fortuna solo per finta, sotto i colpi di armi da scena detenute non si sa da chi, ho avuto l’impressione che si sia chiusa non solo una serie ma un’epoca della narrazione mafiosa.
E sinceramente, non riesco a dolermene.
FRANCO MARINO
Se l’articolo vi è piaciuto, per favore, supportatemi aggiungendomi a questi canali.
Telegram: https://t.me/joinchat/yd6L_1Y29SVhMWI0
Facebook: https://www.facebook.com/FrancoMarinoPatriotaSovranista/
Ma soprattutto, chiedete l’amicizia a questo profilo: https://www.facebook.com/FrancoMarinoLGI/
Ineccepibile come sempre 🙂
Non posso commentare la serie perché ne ho guardato 30 minuti, anni fa, e basta.
Che lo stato fosse mafioso, ce l’hanno fatto capire Falcone, Borsellino e mani “pulite”.
Elegiaco e stucchevole inno al malvivente che no necessariamente deve impugnare una Magnum a servizio di cosca… ma pure una penna un codice o una legge a servizio di uno stato…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/