LA LIBIA E’ UN MALE INCURABILE (di Franco Marino)

Soltanto ieri ho parlato dell’amor di patria. E amando il mio paese, non posso che dolermi del triste momento che sta vivendo. Ma ci sono anche circostanze in cui si può essere sinceramente dispiaciuti per le sorti di un paese straniero che ci è caro. Che nel mio caso sono tre: Norvegia, Libia, Russia. La Norvegia perché ci ho vissuto alcuni anni molto belli, la Libia perché ci ho lavorato e di cui ricordo la meraviglia dei paesaggi e delle costruzioni, la Russia perché, per via di parenti lì, ci sono stato spesso, scoprendo la bellezza di San Pietroburgo. Paesi ai quali se accadesse qualcosa di male, ovviamente mi dispiacerebbe molto di più rispetto ad altri. Senza nulla togliere a questi altri. E’ un fatto sentimentale. Ma mentre dalla Norvegia e dalla Russia non mi giungono notizie di sconvolgimenti in atto, da dieci anni invece la Libia è martoriata da una sanguinosa guerra che ha quasi completamente distrutto quel paese. E da ieri si sta tenendo una conferenza per discutere di quali saranno le sorti per la Libia, nella quale a fine Dicembre si terranno le elezioni per stabilire la nuova leadership. I media parlano di questo evento come fosse l’alba di una nuova fase e al riguardo non si può che dubitarne. Non si vuole da questa mia modesta postazione insegnare il mestiere a gente che si occupa di geopolitica da tanti anni, ciò non significa che se si dice che Tripoli è la capitale degli Stati Uniti, si debba accettare la cosa solo perché magari, dico per dire, la dice un esperto di geografia o geopolitica. Un errore rimane tale, quale che sia l’autorevolezza di chi lo compie.
Al riguardo, quando si parla di Libia, è sempre bene tenere conto che si parla del nulla assoluto. Perché come nazione non esiste. Fu arbitrariamente creata dall’ONU, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale quando, progressivamente, tutti i paesi del continente europeo persero le colonie. In quella che noi chiamiamo Libia, esistono ben centoquaranta tribù, ognuna con usanze completamente diverse e antitetiche tra loro, per religione, etnia, lingua e dunque storia e cultura. Unite solo da una cosa: considerare Gheddafi prima e Al Serraji e Haftar poi, personaggi abusivi che non rappresentano certo tutte le istanze libiche. E che naturalmente subiscono le ostilità – peraltro eterodirette dalle potenze geopolitiche – delle altre tribù.
E’ del tutto impensabile che possa nascere una democrazia in quei posti. Perché la democrazia è fatta di leggi la cui presenza presuppone uno stato figlio di una nazione in cui tutti si riconoscano. Anche perché è la cultura di un popolo a dargli quei princìpi che poi si convertiranno in leggi.
Si capisce già da questo che oggi come oggi, non sia possibile alcuna democrazia in Libia e che l’unica salvezza di quel popolo possa arrivare solo da qualcuno che si assuma la responsabilità, senza sensi di colpa, di andare lì, fare tabula rasa di tutte le culture locali, di tutti i tanti capi e capetti di quelle zone e di fatto annettere quel territorio alla propria nazione. Schema che, per come la vedo io, andrebbe replicato su tutti i paesi africani che si trovano nella medesima condizione dato che sono tutti nelle medesime condizioni della Libia, stesso punto di partenza, stessi guai. L’Italia, che sta proprio di fronte ai libici, dovrebbe semplicemente prendere – è il caso di dirlo – armi e bagagli, andare lì e occupare quei territori, senza andare troppo per il sottile. E non è questione di voler fare la guerra preventiva. E’ che così come non possiamo vivere in un condominio dove c’è un appartamento abbandonato dove bivaccano tossici violenti, non possiamo nemmeno avere un non-stato davanti alle nostre coste, con tutto ciò che ne consegue, sul piano pratico, anche in termini di immigrazione. So benissimo che molti terzomondisti mi faranno il nome del figlio di Gheddafi. Soltanto che quel ragazzo purtroppo ha la stessa ottusità del padre: pensa ancora alla possibilità che nasca una nazione libica e il massimo che è disposto a concedere è una partnership. E qua c’è da trasecolare: come può pensare di pretendere che qualcuno lotti per l’indipendenza della Libia senza ricavarne ritorni economici e geopolitici blindati? Chi è il pazzo sprovveduto che spenderebbe soldi e uomini solo per una semplice partnership? Io che da sempre sogno una Libia italiana o almeno filoitaliana, sarei il primo a trovare folle una cosa del genere.
Ma Gheddafi figlio è l’ultimo dei problemi. Non sono le resistenze locali ad impedire lo scenario sopra descritto. Se il problema fosse solo l’Italia contro la Libia, l’esito della guerra non sarebbe scontato ma saremmo fortemente favoriti per la vittoria.
Nel mondo ideale, appunto. Perché nel mondo reale, ovviamente, le cose sono molto più complicate. In primis, un’azione di questo tipo richiederebbe doverosamente la benedizione di paesi molto più grandi dei nostri che in quel caso vorrebbero la loro fetta della torta, specie dopo aver speso danari e uomini. Quando per esempio Francia assalì banditescamente Gheddafi, ebbe la benedizione degli americani che volevano toglierselo di torno, approfittando anche della debolezza politica di Berlusconi che era l’interlocutore privilegiato del defunto leader libico. E gli americani quel supporto se lo sono fatto pagare caro e amaro. In secundis, il vero problema, come dicevamo nel precedente paragrafo, non è tanto affrontare le resistenze dei locali. Saltando pie pari le sciocchezze di Di Battista che dice che la Libia sarebbe il nostro Vietnam, nella realtà quel paese è desertico, le sue comunicazioni sono rese difficili dalle distanze, il livello tecnologico degli armati che andremmo ad affrontare è basso, dunque tecnicamente non dovremmo avere problemi, anche se naturalmente è il benvenuto qualsiasi militare che abbia dati e prospettive differenti e voglia contraddirmi in merito. La questione non è quella ma come affrontare le azioni di sabotaggio che puntualmente arriverebbero dal giorno dopo da parte dei servizi segreti degli altri paesi. In parole povere, per fare davvero pulizia, l’Italia dovrebbe avere una serie di requisiti interconnessi. In primo luogo una politica forte, che non possa essere fatta fuori dal primo giudice. Poi, il controllo totale dei servizi segreti nazionali oltre ad un solido servizio segreto estero, una sorta di CIA italiana. In teoria esisterebbe l’AISE. Solo che, sarà che siamo di bocca buona, ma gli interessi italiani non è che ultimamente sembrino granché tutelati. Senza contare l’esistenza di quella gran buffonata del Copasir, “il controllo di trasparenza dei servizi segreti”, che è come dire il comitato di controllo dell’illibatezza di una prostituta. Dovrebbe avere una classe politica di gente non animata dall’irenica visione di un mondo arcobalenato dove guai a toccare l’Africa – e che però casomai permette all’Africa di toccare l’Europa – e soprattutto una mentalità che faccia giustizia di tutte le scemenze finora proferite sul colonialismo, a partire dallo sciocco senso di colpa che da quasi ottant’anni intossica ogni dibattito sulla questione africana e che tratta gli africani (quelli con la pelle nera) come povere vittime dell’uomo bianco, senza neanche contare che nei paesi a maggioranza islamica o di pelle nera, i bianchi cristiani vengano giornalmente massacrati. Scemenze che peraltro, purtroppo, non attecchiscono solo a sinistra ma imbevono anche un po’ di destra radicale.
Soluzioni realistiche non ce ne sono. E forse è quello il punto: la malattia libica non ha cura. Perché la Libia è un paese ricchissimo di materie prime che servono a nutrire paesi che ne hanno bisogno. E che certamente non accetterebbero di sloggiare da lì, tantopiù se a muoversi fosse l’Italia. Tutte le volte che qualcuno parla di ripartizione della Libia, all’Italia assegnano la Tripolitania. Una regione quasi completamente priva di materie prime (che invece sono in Cirenaica e nel Fezzan, oltre che nel deserto), quindi sarebbe solo un costo aggiuntivo, quattro milioni di bocche in più da sfamare, mentre la vera torta se la prenderebbero gli altri.
Forse bisogna rassegnarsi e considerare la situazione libica per quello che è: una malattia incurabile. Non rimane che sognare. Che, per esempio, crollino tutte le grandi potenze geopolitiche mondiali? Che si mettano d’accordo e ragionino responsabilmente e accettino che ogni parte del territorio africano abbia un padrone europeo? Che cinesi, americani e russi consentano che le nazioni europee tornino all’altezza della loro secolare fama? Nulla ci vieta di rifugiarsi in un onirico mondo di soluzioni mirabolanti. Il guaio dei sogni è che durano massimo qualche decina di minuti. Poi suona la sveglia.
FRANCO MARINO
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