IL GIORNO DEI MORTI: UNA FESTIVITÀ INUTILE (di Franco Marino)

Ci sono feste che hanno un’inevitabile sacralità: il Natale è la festa della nascita di Gesù, un personaggio su cui si fonda l’intera cultura europea e di molti paesi del mondo e in nome del quale oggi si contano gli anni che passano. La Pasqua è la festa della sua Resurrezione, dogma fondante del Cristianesimo. L’Epifania è la festa dei Re Magi che, in rappresentanza dei popoli di tutta la terra, vengono a celebrare Cristo mentre nelle chiese orientali la data coincide col Battesimo.
La ricorrenza del Due Novembre invece non ha alcun significato. Non ce l’ha perché non c’è alcun evento della cristianità che si colleghi ad esso – è semplicemente una festa arbitrariamente decisa da un abate nel lontano 998 D.C. – e non ce l’ha perché, per la religione, quei morti non sono davvero morti ma sono risorti. Essi sono ovunque, attorno a noi.
A tal proposito, devo fare una confessione. Da quando mia madre è morta, al cimitero sono andato due sole volte. Cinque anni fa quando mia madre fu esumata e l’anno scorso quando papà a sua volta è mancato e abbiamo messo le sue ceneri nella tomba. Entrare nella cappella di famiglia, dove ci sono tutti i miei familiari che hanno animato la prima metà della mia vita, vedere la loro data di nascita accanto a quella della loro morte, mi provoca una forte sensazione di disagio, la consapevolezza di essere l’unico superstite di una nave scampata ad un brutto naufragio, accompagnata alla consapevolezza che il prossimo sarò io. Non è un caso che tutti gli “unici superstiti” vivano sempre con un irrazionale senso di colpa, che chiunque potrebbe ricavare ascoltando o leggendo un intervista di Alessio Bertrand, unico superstite del disastro della Moby Prince di trent’anni fa.
Ma pur non essendo imbevuto di una spiritualità – e non è una cosa di cui sono contento – le persone che hanno fatto parte della mia vita me le porto sempre dentro. Perché la solitudine non è altro che uno schema mentale. Si può essere soli in uno stadio di ottantamila persone che urlano cori al Napoli che vince lo scudetto. E si può non sentirsi soli in un deserto. Le persone che non ci sono più me le porto dentro. Mi porto dentro mio nonno quando scrivo i miei articoli, mio padre quando devo gestire tutte le commissioni della mia vita e mi trovo ad usare lo stesso eccesso di zelo e prudenza che aveva lui, mia madre quando devo dare qualche consiglio fraterno ad amici e mia nonna quando uso i suoi intercalari napoletani. Queste persone hanno impregnato a fondo il mio essere e con loro non mi sento mai solo.
Il giorno dei morti non ha alcun significato perché le persone che amiamo e che non ci sono più non hanno bisogno del rito di andare su una tomba e depositare un mazzo di fiori per sapere che li portiamo dentro. Lo sanno già. Onorarli significa portare avanti ciò in cui hanno creduto, gli insegnamenti che ci hanno lasciato. Significa anche saper avere il giusto distacco da loro se ci si rende conto che non ci hanno lasciato una traccia rilevante. Qualche giorno fa è scomparsa una persona che ho conosciuto, per la prima volta, un mese fa. E’ stato sufficiente un incontro di appena un paio d’ore per provare una grande tristezza quando ho saputo della sua morte. Perché il senso di fratellanza provato quando l’ho conosciuto è stato tale da capire che la sua presenza mi ha dato molto più di quanto mi abbiano dato persone con cui, a parte condividere il DNA, non ho condiviso niente. Ho tantissimi parenti con cui non mi sento unito in nulla. Alcuni di loro, per le mie posizioni sul covid, non vogliono più saperne niente di me e mi hanno rimosso dal loro profilo personale. Quando moriranno già so, ne sono sicuro, che non proverò assolutamente nulla. Perché sono persone con cui non ho niente da condividere, che non mi sono state minimamente accanto nei momenti difficili della mia vita.
Ci sono invece persone assenti che sono più presenti di qualsiasi presenza che in realtà è assente. Queste sono il patrimonio spirituale e sentimentale che rende la nostra vita migliore. E il modo migliore per onorarle non è quello di depositare un fiore su una tomba. Ma dimostrare, con i fatti, che la loro presenza su questa terra ha lasciato un segno indelebile in noi. Questo vale più di mille fiori, di mille presenze. Non ho bisogno di andare a trovare i miei cari per portarmeli dentro. E se loro da qualche parte mi vedono, sanno benissimo quanto in ogni cosa che mi riguardi, loro ci sono e ci saranno sempre. Nelle tombe non ci sono che corpi in decomposizione e ceneri.
Le loro anime, se ci sono, sono ovunque.
FRANCO MARINO
Hai assolutamente ragione.
Lavorando “nel settore”, posso confermare che i fiori portati al cimitero, soprattutto in questi giorni, servono solo per far vedere ai vivi quanto teniamo ai morti.
Questo tuo mettere a nudo i tuoi sentimenti e costruirci un articolo affascina e avvicina i tuoi lettori alla tua persona seppur sconosciuta . Ebbi già modo di commentare un altro tuo articolo sostenendo che a volte vi è più Fede in un ateo che in un sedicente cattolico. Ciò che scrivi è davvero toccante. Ed è vero, i nostri cari vivono per sempre in noi , a volte anche in maniera tangibile basta saperne cogliere i segni. Pregare per i morti e visitare le loro tombe fa parte di quelle opere di Misericordia Spirituale e corporale (seppellire i morti). Dare agli altri la nostra preghiera è un atto di amore.. pregare fa parte di tutta quella teologia cristiana che avvolge il mistero della vita. Persi entrambi i genitori in età giovanile, entrami con tanta sofferenza. Rimani al capezzale di mamma per mesi giorno e notte. Quando morì non riuscivo e distaccarmene e correvo in cimitero quasi come se dovessi accudirla ancora. Durò per un po’. E poi se ne andò anche lui, anni di tremenda malattia, mesi di un duro calvario sempre accanto a lui. Non vado in cimitero se non ogni tanto a sistemare la tomba di famiglia. Ma dentro me sento sempre la sua voce “mammina ti voglio tanto bene “ me lo ripeteva sempre guardandomi con quei occhi umidi, grandi. Si i nostri cari vivono in e con noi… “non piangere per me, sono nella stanza accanto “.. chiedo scusa per queste confidenze