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IL CANCRO DEGLI INFLUENCER: IL CASO DI IMEN JANE (di Franco Marino)

L’Ottocento si è caratterizzato per la nascita dei cardini delle moderne società occidentali: democrazia, libertà, socialismo, diritti umani. Il fallimento ormai conclamato di questi valori nasce dalla mancata comprensione del lato B, tipico di tutti i prodotti dell’idealismo: per ognuno di questi valori, occorre un aumento delle virtù dell’uomo medio. Viceversa, la credibilità di questi valori viene gravemente compromessa dall’impatto con la realtà.
La democrazia, se non vede un miglioramento della qualità generale degli individui, scade nel populismo. La libertà, se non vede un aumento del senso di responsabilità, viene facilmente sostituita dall’anarchia che poi condurrà alla nostalgia per l’uomo forte. Il socialismo, se non viene accompagnato da una sufficiente coscienza del senso civico, fa scadere una democrazia in uno stato etico. E i diritti umani richiedono, per definizione, che tutti gli esseri umani siano coscienti dei limiti di ogni diritto.

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Queste considerazioni potrebbero stonare con la vicenda ben più prosaica di Imen Jane e invece ne costituiscono l’essenza. Onestamente della vicenda della popolarissima influencer parlerò poco perchè c’è oggettivamente poco da dire. Una che millanta una laurea alla Bocconi mai conseguita, neanche immaginando che con i mezzi di oggi è facilissimo scoprire chi davvero è laureato e chi no e una che profonde spocchia in ogni post che scrive, poteva avere successo solo in un paese dalle “difese immunitarie” soppresse. Così come che avesse millantato una laurea in economia, bastava saperlo facendo una semplicissima richiesta alla Bocconi. Invece, dal momento che difendeva i valori del sistema dominante, affettando devozione ai totem dell’economicamente e politicamente corretto, nessuno si è scomodato a sbugiardarla, neanche la Bocconi.



Mi interessa semmai provare a spiegare la preponderanza nel dibattito pubblico degli influencer. Che nasce proprio dalla non conoscenza del lato B del concetto di libertà di parola: la consapevolezza che ad essa deve contrapporsi un aumento del livello culturale dei cittadini.
Cominciamo al riguardo col dire che gli anglicismi hanno francamente stancato. Ha senso usare una parola angloide quando non ne esiste un corrispondente italiano. E’ il caso di sport, bar. Che effettivamente non vedono un analogo italiano. Ma di fronte all’invasione di parole che un corrispettivo italiano lo posseggono (lockdown = chiusura) si può oggettivamente rimanere stomacati. La parola influencer ha più di un corrispettivo italiano chiarissimo: opinionista, commentatore, critico.

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E intendiamoci, l’opinionista ha una sua utilità fondamentale. Se per esempio io, che di arte raffigurativa non capisco nulla, avessi bisogno di comprare un quadro di valore, un critico d’arte è quello di cui avrei bisogno. Ma qui abbiamo chiarissimo il primo punto: io non capisco nulla di arte raffigurativa ed è per questo che ho bisogno di un critico d’arte.
Analogamente, quando qualcuno scrive sciocchezze su musica e diritto, io che per diletto (musica) e per studi (diritto) senza avere l’ardire di definirmi esperto, ho comunque studiato in entrambi gli ambiti per molti anni, sono perfettamente in grado di distinguere un bluff da un grandissimo artista e di decriptare, in ambito giuridico, le sciocchezze quotidiane del Fatto Quotidiano e di altri giornali. E qui siamo al secondo chiarissimo punto: quando si è studiato qualcosa su un determinato argomento, si ha meno bisogno di ascoltare un esperto rispetto al non saperne nulla.
Naturalmente, non tutti sono esperti di musica, di arte, di sport, di politica e dunque un critico può essere utile.
Ma se la critica abbandona la dimensione originaria e diviene un fenomeno di costume, questo inevitabilmente implica che sta dilagando l’ignoranza. E dunque, l’importanza del critico è inversamente proporzionale al livello culturale di un paese. Tantopiù è basso, più il critico sarà importante.

In questo senso, il fenomeno degli influencer non è un cancro che prolifera per caso su un tessuto sano. E’ esattamente, come avviene col cancro fuori di metafora, frutto di un paese su cui è stata operata una costante e giornaliera immunosoppressione, distruggendo l’anticorpo più importante di un paese democratico: la logica.
Questo paese ha conosciuto una marea di fiammate mediatiche: Tangentopoli, antiberlusconismo, grillismo, crisi finanziaria, covid. Nessuna di queste avrebbe preso piede se gli anticorpi della logica e della cultura non fossero stati disinnescati. Non si scappa da questo. E non si scappa nemmeno proponendo di istituire l’albo degli influencer, che aggiungerebbe, al peccato originale sopra descritto, un’ulteriore demenzialità – tipicamente italiana – che è il corporativismo. Che già sta divorando la credibilità del giornalismo italiano, trasformato in una setta massonica.

Non si scappa da questo punto. Imen Jane, la Ferragni e tutto il criticume italiano proliferano sull’ignoranza generalizzata.
E all’ignoranza si rimedia in un unico modo: leggendo, informandosi, studiando.
L’ignoranza è una cellula cancerogena che diventa tumore quando le difese immunitarie (logica, spirito critico, conoscenza) non sono più in grado di riconoscerla e di combatterla.

FRANCO MARINO

3 commenti su “IL CANCRO DEGLI INFLUENCER: IL CASO DI IMEN JANE (di Franco Marino)

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