Il Detonatore

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L’EDITORIALE – FUNERAL (NO) PARTY: STORIA DI UN SEPPELLIMENTO AL TEMPO DELLA PANDEMIA (di Paride Candelaresi)

Non c’è mai limite al peggio. In quest’anno nefasto, abbiamo assistito allo stravolgimento delle nostre vite a causa della malattia, il Covid-19. Qualche giorno fa venivo bacchettato sui social per aver chiamato il virus al maschile. Mi è stata fornita una molto dettagliata – e altrettanto non richiesta – consulenza linguistica sulla sua denominazione. Il paladino della grammatica italiana, mi ha inviato il link al sito dell’Accademia della Crusca, la quale pare essersi presa la briga di fare chiarezza sulla questione. Appurati i dubbi grammaticali, l’utente social ha concluso, aggiungendo che lui è un infermiere che lotta da un anno e oltre contro questa “epidemia” – probabile che la differenza da pandemia non gli sia, invece, altrettanto chiara. “Mi stupisco che dopo tutto questo tempo, qualcuno sbagli ancora! È una vergogna!”, ha aggiunto. Non ho potuto far altro che alzare gli occhi al cielo e passare oltre. Solo un imbecille si metterebbe a discutere su questioni di così poco conto.

Questo non è, però, l’unico episodio spiacevole di giustizialismo nell’era dei paladini mascherati. Mi riferisco a tutti quei casi di coloro che, con atteggiamento morboso, puntano il dito verso chi non “rispetta le regole” o “non mantiene le distanze”. Questi forcaioli sono le stesse persone che si sentono rassicurati da banali slogan confortanti. Basta che un’attività commerciale dica loro qualcosa del tipo “tutti gli ambienti sono sanificati secondo le vigenti norme di sicurezza”, che immediatamente il livello di ansia scende e li si vede annuire soddisfatti. Poco importa se il macellaio non si cambia la mascherina da un mese e questa, una volta appoggiata sul bancone, cammini da sola, animata ormai da vita propria. Basta un rassicurante cartello all’ingresso.

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Di racconti come questo ce ne sarebbero molti, fra bufale mediatiche, psicosi collettive e tirate d’orecchi, ma vorrei soffermarmi su qualcosa che non riguarda i vivi, ma bensì i morti. Com’è trapassare in ospedale? Qualcuno si chiede quanto sia disumano morire da soli? Si nasce e si muore da soli, è vero, ma ciò non alleggerisce il tema da tanta brutalità. Chi è bloccato in ospedale a causa della malattia vive il tormento della solitudine: nessuna visita, nessun contatto.

Pensateci, un genitore viene portato via e, da quel momento, vi sarà impossibile vederlo per giorni, settimane, mesi. Il vostro ultimo ricordo sarà lui caricato su un’ambulanza. Da lì in poi, il solo filtro saranno i medici, nel migliore dei casi, quando possibile, una videochiamata su WhatsApp. La sofferenza di chi rimane a casa è indicibile. Il dramma di non sapere come stiano andando le cose, il dramma di non esserci.

Ma non è tutto: l’ultimo saluto, se il tuo caro è morto a causa “della” Covid-19, sarà rivolto a un sacco nero e non al suo corpo. Sono le norme anti-contagio a prevederlo: il cadavere potrebbe trasmettere la malattia. Il riconoscimento della salma sarebbe, a mio avviso, un ultimo gesto di affetto che non andrebbe negato a nessuno.

Più o meno simile è la storia del mio amico Lorenzo che ha perso sua madre da pochi giorni. Ricoverata due settimane fa, con un quadro clinico già molto complicato, ha poi contratto il virus in reparto. Ma come? L’ospedale non dovrebbe essere il posto più sicuro? Fatto sta che la povera mamma è stata certificata come “morto Covid”, dunque niente saluto consolatorio.

Ma non è tutto. Oltre il danno la beffa. Il prete sostiene che non sarà possibile celebrare il funerale con la bara. Dice che è pericoloso. È preferibile optare per un breve rito davanti al cimitero, una cosa veloce. Personalmente, io, avrei voluto assistere al funerale, quantomeno per offrire conforto a un amico, in uno dei momenti più strazianti della vita.

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Siccome non mi do pace per la questione, chiamo un mio collega consigliere comunale, delegato ai cimiteri, per chiedere delucidazioni, dato che non mi pareva il Consiglio avesse preso decisioni in tal senso. Mi spiega che solo a inizio pandemia i funerali furono sospesi, ma che, attualmente, “basta” che la bara, se sepolta nella terra, sia sigillata con uno strato di zinco e senza areazione. Per il resto, seppur nel rispetto delle benedette norme di sicurezza, pare il funerale si possa fare. Dunque c’è stato un misunderstanding, forse il prete non ha capito, chissà. Sta di fatto che Lorenzo non ha potuto salutare sua madre per quindici giorni, non ha potuto vederla neanche da morta e, infine, celebrarne il funerale.

In ogni cultura e religione, senza distinzione alcuna, i riti per rendere omaggio ai defunti servono per offrire sollievo alle persone che gli erano state vicine, nonché un modo per restituire loro quanto è stato fatto in vita. Invece ci troviamo a combattere con sedicenti linguisti, paladini della giustizia e preti impreparati. C’è però un aspetto positivo: potremo rivedere i volti dei nostri cari, ben conservati nelle loro bare di zinco, i quali, fra vent’anni, saranno ancora intatti. Lo dicevo all’inizio, non c’è mai limite al peggio.

Paride Candelaresi

Email: paridecandelaresi@alice.it

WhatsApp: 345 8701353

Instagram: Leggendoatestaalta https://instagram.com/leggendoatestaalta?igshid=1omy5v5upqgmo

Paride Candelaresi, 35 anni, ciociaro fuori e sabaudo dentro. Scrive per diverse testate locali e va dritto al punto. Propaga fervori sulla sua pagina Instagram dedicata ai libri. È consigliere comunale e Presidente della Commissione Cultura del Comune di Asti. Sostiene “Do fastidio, ma ho il cuore tenero”.

2 commenti su “L’EDITORIALE – FUNERAL (NO) PARTY: STORIA DI UN SEPPELLIMENTO AL TEMPO DELLA PANDEMIA (di Paride Candelaresi)

  1. Sarà per questo che durante i funerali con le telecamere la “gente” applaude: vogliono il bis.

    Giova inoltre ricordare lo slogan di un anno fa: “Andrà tutto bene…”.
    Mancava la seconda parte: “…per chi odia l’umanità.”

    Non stupisce invece come, in un paese di caporali (cit. Totò), i preti si distinguano sempre per stronzaggine.

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