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FEMMINICIDIO: UNA RIDICOLA PAROLA INVENTATA DA CRETINI (di Franco Marino)

A Napoli un uomo ha ammazzato la compagna. Se vivessimo in un paese normale, con un diritto funzionante, con un giornalismo serio, parleremmo di un omicidio. Ed essendo questo avvenuto non perchè la compagna abbia cercato a sua volta di ucciderlo, parleremmo di omicidio volontario e ciò basterebbe ad esporre l’assassino alla riprovazione della gente e dei tribunali.
La stampa italiana e la politica parlano, invece, di femminicidio. E sempre se vivessimo in quel paese normale che non siamo, chiunque scrivesse per mestiere e pronunziasse una parola di questo tipo – grammaticalmente errata – verrebbe licenziato da ogni editore serio, per palese somaraggine.
Nondimeno, nel paese dove il rovescio diventa diritto, dove la stampa non informa ma fa propaganda, è divenuta una parola di gran moda. Ma ciò non toglie che essa nasca da una lunga serie di errori logici. Vediamo quali.

Come si sa, il diritto penale distingue l’omicidio volontario da quello preterintenzionale, da quello del consenziente, dall’infanticidio, dall’istigazione al suicidio e da quello colposo. E questo ha ovviamente un senso. Un atto compiuto con la determinazione specifica di uccidere è l’omicidio volontario. E per esso è prevista una pena fino all’ergastolo. Un atto compiuto al di là delle intenzioni, cioè io volevo tempestare di botte qualcuno ma mi scappa un pugno più violento del previsto che lo manda al creatore, è l’omicidio preterintenzionale. Un’azione che sfugge completamente da ogni mia volontà di cagionare un qualsiasi male ma che provoca la morte di qualcuno è l’omicidio colposo. Un omicidio dove c’è il consenso della vittima – un malato terminale senza alcuna speranza di sopravvivenza e condannato ad enormi sofferenze – è l’omicidio del consenziente. Un omicidio dove la vittima è un infante che viene abbandonato, è l’infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale. E infine c’è l’istigazione al suicidio.


Al netto di ogni circostanza attenuante e aggravante – che incidono non di poco sul tipo di pena – ognuno di questi omicidi prevede pene differenti perchè differente è la disposizione d’animo dell’omicida. Chi uccide per denaro ha un animo diverso da chi uccide per un tragico errore. Ma nel momento in cui siamo d’accordo che l’omicidio volontario rappresenta l’aberrazione per eccellenza che va contro l’interesse della specie, non ha il minimo senso per il diritto stabilire se la vittima sia una donna, un uomo, un figlio o un genitore. In una civiltà giuridica, togliere volontariamente la vita ad un essere umano, fatte salve le circostanze attenuanti previste dal diritto – perchè un conto è uccidere per vendetta chi ha ucciso una persona a noi cara, altro conto è sopprimere la vita altrui per danaro, per gelosia – pone GIA’ l’assassino al di fuori del consesso civile.
E tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che uccidere una “femmina” è infinitamente più grave che uccidere un “maschio”, noi stiamo automaticamente dicendo che la vita di un maschio vale meno della vita di una femmina. Ragionamento a sua volta aberrante.
A questa obiezione, una donna, specialmente se ammantata di nazifemminismo, risponde che il femminicidio ha la particolarità di essere più frequente perchè le donne sono fisicamente più deboli. Pur non mancando i casi di “maschicidio”, è vero che in una collutazione tra un maschio e una femmina, salvo che la femmina non pratichi arti marziali o sia una bodybuilder e il maschio sia una pappamolla, l’esito è scontato. Ma questo non toglie nulla all’erronea pretesa distinzione che si vorrebbe introdurre sul piano legale. Il diritto pone già in essere la pena adeguata per chi uccide una donna che è la medesima per la donna che uccide l’uomo.
A convincere le donne della necessità di una nuova legge è la presunzione che l’ordinamento giuridico non punisca gli assassini. Ma tutto questo non ha nulla a che fare con le leggi, bensì con la loro applicazione.
Se anche si introducesse il femminicidio, se i tribunali continueranno a tirare fuori dopo pochi anni il femminicida, nell’idea che egli sia recuperato, a quel punto anche la nuova fattispecie sarà totalmente inutile.

L’opinione pubblica sembra non rendersi conto che il vero problema non è l’approvazione di nuove leggi ma l’applicazione di quelle già presenti.
Non occorreva introdurre il reato di stalking: c’è già quello di molestie. Non occorreva introdurre il reato di omicidio stradale in quanto mettersi alla guida in condizioni precarie e provocare perciò la morte di qualcuno ERA GIA’ una circostanza aggravante dell’omicidio colposo.
Prima di introdurre nuove norme, oltretutto scritte malissimo – come nel caso della legge sullo stalking – occorre applicare le leggi che già sono presenti, avvalersi delle tecnologie già a disposizione. Perchè è dalla loro mancata applicazione che scaturiscono i fenomeni che conosciamo. Occorre mettere le donne vessate e minacciate nelle condizioni di denunciare agevolmente i mariti violenti. Se poi si vuole far passare il principio che esista una dolorosa piaga relativa alle violenze domestiche contro le donne – come se non esistessero violenze anche a carico degli uomini – non è compito del diritto cambiare le cose ma delle scuole, delle famiglie e dunque dell’educazione in generale.
Il diritto non ha questi compiti. Interviene quando si compie il reato. E quando il reato è commesso, se la vittima ha il pisellino o la farfallina, ai genitori e agli amici che ne piangono la scomparsa, cambia poco.

FRANCO MARINO

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