Il Detonatore

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RIBADISCO: GLI STATALI SONO IL CANCRO DELL’ITALIA (di Franco Marino)

Un mio post su Facebook non dedicato nello specifico agli statali ma dove parlavo (male) degli statali mi è valso l’ira di moltissimi di loro, i quali mi hanno scritto in pubblico e in privato per protestare, insultandomi, qualcuno minacciandomi. E questo, lungi dal convincermi che ho sbagliato, al contrario è il chiarissimo segnale che ho colto perfettamente nel segno.
Io, ad esempio sono un informatico. E se qualcuno mi dicesse che la nostra categoria è composta prevalentemente da cialtroni e truffatori, io non mi offenderei nè arrabbierei affatto. In primis perchè ogni luogo comune, ogni generalizzazione è falsa solo quando pretende di applicarsi in ogni circostanza ma contiene comunque sempre un gran fondo di verità. E in secundis perchè io non sono un truffatore. Non ho dunque l’esigenza di arrabbiarmi se qualcuno sostiene che io potrei essere un potenziale truffatore, intanto perchè ho tanti clienti che potrebbero testimoniare il contrario e poi perchè cerco sempre di immedesimarmi nella psiche di chi arriva ad esprimere un’opinione così divisiva. In entrambi i casi sono perfettamente in pace con la mia coscienza. E proverò a spiegare perchè.


La prima cosa da dire è che io sono figlio di statali. Vengo da quel mondo, so come si ragiona in quell’ambiente e so benissimo che essere statali, in Italia soprattutto, significa anzitutto appartenere alla categoria antropologica di chi non sa fare nulla, di chi non ha voglia di rischiare, di chi ha fallito nel procurarsi da solo nel vivere del proprio lavoro e dunque non ha altre alternative che quella di farsi spesare vita natural durante da uno stato che non opera seguendo la logica economica tipica del mercato ma parassitando la ricchezza prodotta dai privati.
Ora voi mi direte che non tutti gli statali sono così ed è vero: mio padre non era così. Era conosciuto per essere un uomo meticoloso, serio, onesto e diligente. Non a caso, era fortemente critico con la sua categoria, proprio perchè consapevole che per molti il posto fisso era un puro e semplice stipendificio. Ma non faccio fatica ad ammettere che alcune delle caratteristiche della mentalità degli statali erano presenti anche in mio padre: l’ossessione per la laurea – e dunque la convinzione che chi non fosse laureato fosse automaticamente condannato ad essere o un ignorante o un morto di fame – la sua naturale diffidenza verso lo spirito imprenditoriale – e dunque anche verso il mio lavoro – e in generale un’avversione nei confronti di qualsiasi cambiamento, da lui visto sempre come un salto nel buio.
Lui voleva a tutti i costi che io entrassi nello stato, cosa che essendo lui un dirigente dell’Agenzia Entrate, mi sarebbe stato molto facile, “oliando qualche meccanismo”.
Personalmente, invece, la semplice idea di dover passare tutta la mia vita con le stesse persone, nello stesso posto, con lo stesso stipendio per quarant’anni per poi andare in pensione e non saper fare nulla, mi deprimeva. Essendo facilissimo alla noia, già so dove mi avrebbe condotto una situazione come questa: dopo aver appagato la mia voglia di sicurezza, al quarto o quinto mese avrei cominciato a buttare sassi dalla finestra di un ufficio, giusto per vedere l’effetto che avrebbe fatto.
Ho scelto di fare l’imprenditore, di produrre il mio lavoro, di inventarlo, di creare. E non me ne sono mai pentito.

Abbiamo così chiaro il primo punto: essere statali o privati è una scelta. Che non ha nulla a che fare con la convenienza, visto che in Italia essere imprenditori non conviene. Ha a che fare con un proprio temperamento. Con l’amore per la libertà. Con l’idea che nella vita si debba cercare sempre di crescere, di amare il proprio lavoro, di farlo col gusto di lavorare.
Il timore esistenziale che alla fine del mese non mi arrivi quell’accredito di 2000-2500 euro, 3000, 4000, quel che è, viene ampiamente compensato dal fatto che tutte le volte che al mattino mi sveglio e mi metto al computer, lo faccio con gioia, con piacere. Io mi sento felice. Amare il mio lavoro mi ha consentito di superare tutti i dolori che nella vita ho provato.
Sono uno che ama la vita. A cui non importa di vivere novant’anni male ma cinquanta come un leone, godendosela. Uno che naturalmente cerca sempre di prendere precauzioni ma non al punto di rinchiudersi in un eremo.
Era inevitabile che l’emergenza covid dividesse il paese in due. Tra chi, vivendo del proprio lavoro, sa benissimo che c’è un virus un po’ più pericoloso della media ma sa anche che se non si lavora non si mangia. E chi invece, dal momento che lo stipendio gli arriverà comodamente ogni mese, non è minimamente interessato a riprendere il proprio lavoro. Perchè state certi che se gli statali fossero stati licenziabili con la medesima facilità con cui oggi un dipendente privato o un imprenditore possano essere licenziati o fallire, i primi a tifare per la riapertura sarebbero proprio gli statali.

Ora voi mi direte che ci sono statali che vogliono ripartire, che non sono d’accordo. Ma è tutta apparenza. Nei fatti, lo statale non sarà mai con voi se vorrete organizzare una rivoluzione. Perchè quelle migliaia di euro che arrivano a fine mese sul proprio conto corrente bancario diventano una filosofia di vita nè più nè meno com’è una filosofia di vita quella di dover rincorrere un cliente riottoso a pagare. Sono categorie antropologiche opposte, che vivono su due mondi diversi. E non perchè, come afferma complottisticamente qualcuno, lo stato vuole farle scannare in una guerra civile (cosa vera ma per altri ambiti) ma perchè sono due modi opposti di vedere la vita.
La filosofia di vita dello statale è conservativa, quella del privato è naturaliter rivoluzionaria. Il privato campa se si aggiorna, se si istruisce, se migliora. Lo statale può rimanere ignorante a vita, gli arriverà sempre uno stipendio a fine mese.
Per cui sì, magari ci sarà pure qualcuno che vorrà dare a bere agli altri e forse persino a se stesso di empatizzare con le ragioni di chi ha perso il lavoro. Ma provate a proporgli di ridursi dell’80% lo stipendio o addirittura stare senza.
Naturalmente, questo non significa essere contro il concetto di Stato. Anzitutto perchè lo stato non è una creazione dello spirito ma una legge etologica. Essendo l’uomo un animale sociale, esso si strutturerà sempre in comunità, in gruppi. E uno stato non è altro che la fazione militare più forte di un territorio. Di un stato c’è e ci sarà sempre bisogno fin quando l’uomo sarà un animale sociale. E poi perchè il problema non è lo stato come principio ma come lo stato si struttura. Uno stato efficiente licenzia i propri dipendenti con la stessa facilità con cui li può licenziare un imprenditore. E che quando li licenzia, gli dà un sussidio temporaneo per sopravvivere.
Uno stato efficiente è quello che le risorse per campare le trova non tassando all’estremo gli imprenditori, secondo l’assurdo principio della progressività che, discendendo dalle teorie marxiste, suppone che chi guadagna di più sia un privilegiato e non semplicemente più bravo. Ma è quello che crea una solidissima impresa privata, sovrana, patriottica, da cui trarre una tassazione ragionevole che tuttavia serva a garantire i servizi più essenziali connaturati al concetto stesso di stato: polizie, tribunali, esercito, lasciando al mercato tutti gli altri.

L’idea che lo stato debba garantire la sanità, la scuola e tutto un quantitativo enorme di servizi sociali può fare presa solo in chi crede davvero alla balla che questi servizi siano gratuiti. Non lo sono per nulla. Il cittadino per garantirseli paga molto di più di quanto pagherebbe con una normale assicurazione, con la differenza che con le assicurazioni il cittadino sceglierebbe lui il suo medico, quando farsi visitare, dove.
Lo stato non ha interesse nel rendere efficienti questi servizi perchè non ragiona come un’azienda dove se le spese superano i profitti, quell’azienda fallisce. Se lo stato opera in perdita, può truffare i mercati e può rapinare i privati. Se l’impresa opera in perdita, semplicemente fallisce.
Avremo dunque medici che vi cureranno male e tardi se vi fate visitare in ospedale e bene se li pagate privatamente. Scuole che invece di informarvi e formarvi, vi useranno per propagandarvi balle di partito. E tutto ciò che, in uno stato ideale vi dovrebbe spettare di diritto, nello stato reale vi arriverà solo se smuoverete – dietro cospicui pagamenti – patronati e mafie.
E non dico niente che non possiate sperimentare ogni giorno.

La mentalità del privato e quella del settore pubblico italiano sono semplicemente antitetiche. Nel mondo si stanno creando i presupposti di una guerra antropologica che divide le società di ciascuno stato in categorie in base alle proprie contraddizioni. In Italia, tale guerra si declina in uno scontro tra privato e pubblico. Tra chi vive del proprio lavoro e di chi invece vive parassitando i soldi dei contribuenti. E la sistematicità con cui la divisione tra privato e pubblico è anche tra chi invece ha paura che non si riparta e chi invece ha paura esattamente del contrario, è il chiaro segnale di quella che è la reale dimensione antropologica del conflitto.
Il privato non sottovaluta il virus. Semplicemente sa che ammalarsi di covid è molto meno pericoloso del rischio di non arrivare a fine mese. Laddove il pubblico se ne fotte semplicemente. Gli è stato fatto credere che comunque vada si ritroverà i suoi 1500-2000-3000 euro al mese sul proprio conto, senza neanche immaginare che il denaro sia solo carta (e corrente elettrica se è digitale) che se non garantita da beni e servizi diventa debito che pagheranno le generazioni successive. E senza minimamente pensare che quando quel debito finisce nelle mani di chi vuole depredare il paese, gli stipendi statali non verranno più pagati e dunque anche il dipendente pubblico non avrà più soldi. In quel momento il socialismo svela la sua natura cancerosa e mortale suffragato dalla Thatcher quando regalò al mondo una sua massima immortale: “il socialismo finisce quando finiscono i soldi degli altri”. Quando i soldi finiscono, non è lo statale a salvare un paese ma colui che produce beni e servizi. Questa è la grande verità sconosciuta ad un paese che non ha mai davvero sperimentato la miseria, quella vera.

Lo statalismo è il cancro che ha distrutto il nostro paese.
E se qualcuno si offende, cazzi suoi.

FRANCO MARINO

2 commenti su “RIBADISCO: GLI STATALI SONO IL CANCRO DELL’ITALIA (di Franco Marino)

  1. Caro Franco, o come in realtà ti chiami, ti seguo da tanto e sono sempre stato d’accordo con le tue analisi ed esternazioni (più di una volta ti ho proposto come the President) stavolta no. Non al 100%. Premesso che non sono statale ma dipendente in una pubblica azienda di servizi, ho in famiglia imprenditori e agenti di PS, no accetto questa tua “criminalizzazione” di tutti i dipendenti pubblici. E contemporanea santificazione degli imprenditori. Ne conosco a iosa di figure da ambo le parti che ti potrebbero smentire.

  2. In linea di massima sono totalmente d’accordo, l’illusione dello STATALISMO ci sta riportando dritti dritti al nuovo TOTALITARISMO con tanto di “soluzioni” eugenetiche statali per liquidare gli oppositori alla nuova religione ufficiale di Stato cioè la Religione del Virus il cui segno (di sottomissione accettazione è la MASCHERINA, resa obbligatoria dal nuovo Stato Totalitario).
    Consiglio di rileggere IN NOME DELLO STATO saggio sullo statalismo totalitario scritto nel 1939 da Ludwig von Mises, e pure, tanto per capire cosa ci aspetta, il famoso attualissimo LA BANALITÀ DEL MALE di Hannah Arendt, la sua esemplare agghiacciante descrizione del “normale” comune funzionaro di Stato Totalitario..

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