Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

AL FESTIVAL POCA MUSICA E TANTO POLITICALLY CORRECT (di Paride Candelaresi)

Sanremo è giunto al termine. I Maneskin non sono stati “zitti e buoni” e hanno vinto. È stato un festival oggettivamente noioso, dal pensiero artistico un po’ debole. Le cinque serate che da tradizione costituiscono l’architettura de festival sono a dir poco estenuanti. Tempi lunghi, poco ritmo e finiscono sempre troppo tardi.

Stanotte, alle 2 e 44, mi sono chiesto se denunciare i vertici Rai per sequestro di persona o meno. Poi ho desistito, ho già abbastanza problemi. Così come li hanno parrucchieri, taxisti e commercianti, i quali da giorni lamentano che, in questa edizione, a guadagnarci, sia solo la Rai. Si lavora poco, c’è crisi. Niente trucco e parrucco: gli artisti hanno il loro staff personale a prepararli in camere blindate. Niente cene al ristorante post-festival. Turisti, manco a dirlo, inesistenti. Persino molte stanze d’albergo sono rimaste vuote. In altra epoca sarebbe stato impossibile trovarne una. 

Complice anche l’assenza di pubblico all’Ariston, quest’anno si è visto un teatro fantasma con le poltrone tutte libere. Insomma, un proscenio freddo e senz’anima. Gli applausi registrati e gli incessanti siparietti di Amadeus non hanno aiutato a riscaldare il già tiepido entusiasmo del pubblico. Insomma, non propriamente roba che ti inchioda alla televisione.

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Canta che ti passa, verrebbe da dire. E invece niente. Gli artisti erano troppo occupati ad arrovellarsi su come stupire il pubblico, invece di fare quel che avrebbero dovuto: cantare. Le stonature non sono mancate, le urla nemmeno – vedasi la voce di Loredana Bertè: capelli blu, cosciotti di fuori e scarpette rosse sul palco per ricordare la violenza contro le donne. La fiera del cattivo gusto. E della banalità. Eppure tutti a dire che è stata lei l’anima rock di questa edizione. Vabbè, passiamo oltre. 

Certo ci sono state valide eccezioni. Annalisa ha cantato magnificamente la sua Dieci. Ha detto bene ieri sera Vanity Fair, il suo arrivo all’una di notte passata è “il Long Island che ci serviva per riprenderci”. Lei arriva, canta e se ne va, non gliene frega una mazza del teatrino intorno. Non a caso è donna di scienza – è laureata in Fisica -, non si fa sorprendere dall’emozione e dalle polemichette acchiappa-like. È il più grande talento che abbiamo in circolazione. Infatti, non ha vinto. E poi l’iconica Orietta Berti, a dir poco inarrivabile. Ne ha combinate di tutti i colori generando meme e gif ovunque. Ha sbagliato tutti i nomi: Amadeus è diventato Amadeo, i Maneskin trasformati in Naziskin. Ha messo i fiori nel lavandino con l’acqua aperta, se li è dimenticati e ha allagato la camera d’albergo. A 77 anni ha cantato meglio di tutti e precisa che lei canta con il microfono vero, non con quelli truccati dall’autotune.

Ma torniamo ai cantanti. Il loro principale obiettivo era fare demagogia: impegno per il sociale e qualche messaggio buonista. Un pizzico di intellettualismo da terza liceo fa sempre bene e non impegna. Come portare sul palco la retorica del “basta donare mazzi di fiori solo alle donne”. Una donna mica la si compra con un mazzo di fiori! Sarebbe discriminatorio regalarli solo alle esponenti del gentil sesso. E io, povero disgraziato, così sciocco a pensare che fosse un pensiero romantico! Che ne so, la rievocazione di gesto antico, eterno. Allora, ha ragione Gianluca Veneziani quando dice “del resto, seguendo questa logica dovremmo vietare anche l’omaggio di fiori che simboleggiano la rivendicazione dei diritti femminili, come le mimose” (Libero, 6 marzo 2021).  

Ciò nonostante, alcune cantanti come Michielin e Arisa, hanno deciso di cedere il loro bouquet ai colleghi maschi. D’altra parte, il festival è per tradizione distinto da numerose polemiche. Quest’anno, invece, grandi assenti. Sarà questo il motivo del flop di ascolti? Possibile. 

C’è stato un barlume di speranza quando Beatrice Venezi, donna di straordinario talento, ha anniento il politicamente corretto dicendo “Sono direttore, non direttrice d’orchestra”, ma è durato poco. Le donne si sono arrabbiate con lei – ma non dovrebbero essere solidali fra loro?  Un po’ di bufera alimentata dai social, ma poi s’è risolto tutto a tarallucci e vino. Le femministe sono andate a dormire, i linguisti pure. 

C’è da dire che, però, i social hanno fatto la loro parte. Twitter su tutti ha offerto non pochi momenti felici. Il tweet “c’è una Vanoni ubriaca in ognuno di noi” si è alternato a “sono seduto su questo divano da 7 ore”; il caustico “durante il discorso della Palombelli, dalla tomba di Tenco si è udito un altro sparo” è diventato virale.

Vabbè, dai, poca nostalgia e tanto imbarazzo. Voi direte, facile criticare stando seduto sul divano di casa tua. Avete ragione, ma se non guardi Sanremo per massacrarlo, cos’altro giustificherebbe tale sofferenza? Uno dei momenti più commentati del festival, è stato il live di Achille Lauro. Dobbiamo dargliene atto, riesce sempre a essere divisivo. Si è presentato sul palco agghindato come una statua pop. La sera prima aveva pianto lacrime di sangue.

Io lo dico che non c’è mai limite al peggio. Ogni volta che lo vedo, percepisco ambizione, teatralità, egocentrismo. Ok, tutto bello, ma quella sensualità così esibita mi pare poco necessaria. Mi sono chiesto se fosse uscito da tragedia greca. Ma di quelle che finiscono male male intendo. Non s’è capito se volesse interpretare Edipo o Giocasta. Se non gioca con la sessualità, non è contento.

E poi, Arisa. Canta bene – ma meno del solito – sfoggiando delle patetiche espressioni da Madonna Addolorata e delle scarpe orribili. Il suo look? Un disastro. Il titolo della sua canzone è stato rivelatorio: Potevi fare di più. Fra l’altro, in questi giorni, un sacco di problemi tecnici, tipo i microfoni non funzionanti. La voce dei cantanti spesso e volentieri non si è sentita. La prova che Dio esiste? Forse. E la Vanoni, l’avete vista? È arrivata sul palco e dopo pochi minuti ha sfanculato tutti, incurante del gobbo e del copione. Con probabilità non è stata altrettanto incurante con il barista.

Su Instagram qualcuno dice “il segreto della giovinezza della Vanoni è solo uno e noi dobbiamo prendere appunti: il whiskey”. Ma i blog impazzano quando arriva l’icona gay Donatella Rettore – mi pare fosse la terza sera. Si unisce a un live con un gruppo dal nome improbabile: i Rappresentante di lista. Io dico, va bene che Zingaretti si è dimesso – finalmente una buona notizia –, ma pareva che avesse ingoiato le adenoidi. Povera Rettore! Di splendido splendente ci ho visto ben poco. 

La vera diva di questo Sanremo è stato però il calciatore Zlatan Ibrahimovic. Educato ma prigioniero del suo personaggio, ha occupato il palco in tutta la sua imponenza. Molte le accuse sessiste giunte ad Amadeus: Ibra rappresenta il maschio alfa, un modello da cui tenersi lontani. E dire che fra baci omosessuali – ben graditi dal sottoscritto, sia chiaro -, tutine attillate e messaggi androgini, il festival ha saputo accontentare tutti, conciliando gli opposti. E invece no, tutti a prendersela col gigante svedese.  Ibra arriva all’Ariston grazie al passaggio di un motociclista, mentre lui era bloccato con l’auto? La faccenda – spontanea o costruita che sia – non va giù a molti. Come si permette, così non fa altro che “trasmettere questa idea di maschio inarrestabile”. Avercene di più, campioni così, aggiungo io! Semmai, mi sarei soffermato sulle orribili battute che gli hanno scritto. Ben poco si sposavano al suo incontenibile gaudio da sardina. 

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Il Festival rimane il più grande evento italiano che ci sia. Lo si segue per le canzoni, la stampa, i look, le polemiche. Diventa quasi difficile spiegare a nome di tutti quale sia la vera ragione per guardarlo. Fra l’altro, quest’anno, le canzoni erano anche meno peggio di altri anni. Nel complesso – scenografia di Blade Runner a parte –, è stato uno spettacolo dignitoso. Sanremo è così, lo amiamo e ce ne lamentiamo. Mi sono piaciuti molto i Comacose e gli Extraliscio. I primi hanno portato in campo la spontaneità che solo un vero amore può offrire – “Hai le fiamme negli occhi e difatti se mi guardi mi bruci”. I secondi hanno proposto un punk da balera con il cantante mascherato da teschio. Bene anche Gazzè e i leggerissimi Colapesce e Di Martino. 

Fra baci gay e corone colorate, il Festival è finito. Tanti fiori e poche spine. E pensare che i fiori, indiscussi protagonisti di questa edizione, erano amatissimi da Nilla Pizzi. Vinse il primo festival nel lontano 1951, con il brano Grazie dei fior. Che paradosso! Come sempre, se ho dimenticato di offendere qualcuno, chiedo scusa in anticipo. 

Paride Candelaresi

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