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RODOLFO FOGWILL E IL SUO “SCENE DA UNA BATTAGLIA SOTTERRANEA”: PIÙ CHE UN LIBRO CONTRO LA GUERRA, CONTRO IL MODO IN CUI LA SI RACCONTA (di Marco Pianti)

“Venivo da romanzi inutili, pieno di buone intenzioni, e vivevo in un porcile cinque piani sopra l’appartamento di mia madre”: esordisce così nell’introduzione alla versione definitiva di Scene da una battaglia sotterranea, suo romanzo più noto, l’unico tradotto in Italia (SUR, Ottobre 2011), Rodolfo Fogwill. Lo scorso 22 Marzo, la stessa casa editrice ha proposto una nuova edizione e questa sembra un’occasione utile per parlarne.

Nel 1982, si combatte una guerra tra Argentina e Inghilterra per il dominio delle isole Malvinas (o Falkland, per gli inglesi). In questo scenario hanno luogo i commerci di un gruppo di soldati, che vengono chiamati “Armadilli”, decisi a sopravvivere con ogni astuzia e disposti a tutto per evitare un destino tragico. Ispirata dal fanatismo con cui sua madre segue le cronache “incollata alla televisione”, l’opera di Fogwill racconta una realtà parallela alla propaganda bellica, una realtà sotterranea.

Rodolfo Fogwill, Scene da una battaglia sotterranea, Sur

Gli armadilli, ovvero un manipolo di soldati argentini, di vigliacchi infami o fantasmi disertori, abitano gallerie sotterranee tra le linee amiche e le linee nemiche. Incaricati di scavare nuove trincee, scavano invece un labirinto nella terra argillosa. “La tana” accoglie giovani soldati, forse codardi, ma di sicuro non abbastanza babbei da accettare un destino che li condurrà a una morte idiota. Barattano informazioni con gli inglesi in cambio di sigarette e batterie che abbondano nelle loro dispense, vendono interi reparti del “loro” esercito nazionale, per ripicca, per gioco e per qualche chilo di sale.

Le massime autorità tra gli armadilli sono i Re Magi, quattro teppisti appena ventenni. Nelle gallerie della tana aleggiano il fantasma di Gardel (un uruguayano? No, un francese, finocchio e tossicomane), sottili strisce di fumo, discorsi frivoli e impersonali, aneddoti pornografici sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra dagli inglesi, ma sopratutto serpeggia come una nube tossica la paura di essere cacciati dal club esclusivo degli armadilli, invisibili e invidiati dai loro compatrioti, condannati invece a inciampare sulle mine (come le vacche delle Falkland che saltano in aria e finiscono nelle dispense della tana) o beccarsi una bomba dai cieli infestati di Harrier.

Qualche volta, tra una conta dei “freddi” (i caduti) e degli umidi (i feriti), qualcuno, magari un damerino ottusamente idealista (la fauna della tana è varia e non esistono requisiti necessari per accedervi, se non la trama imprevedibile del caso), vorrebbe discutere il futuro politico del Paese, ma viene immediatamente richiamato all’ordine dal cinismo annoiato dei suoi camerati (“Che vadano tutti a farsi fottere insieme a quella troia della loro madre!”). Altri, invece, si interrogano sulle sorti della guerra, ma anche a questi viene riservato lo stesso trattamento (“Che vincessero loro, cosi fucilano a tutti e a noi ci riportano a Buenos Aires).

Ogni confraternita, anche la più clandestina, riproduce i modelli, le formule e le strutture gerarchiche delle istituzioni all’ombra delle quali prolifera. Così i quattro Re imparano il linguaggio esoterico del potere che esercitano sulla massoneria sgangherata degli Armadilli. Ma, sebbene ogni gesto, ogni rito, ogni decisione siano motivate dall’ostinata volontà di scongiurare una morte eroica e indesiderata, Fogwill ci presenta uno sviluppo che lascia supporre una speranza, anche tra i corpi in putrefazione, persino tra i commerci più loschi, nelle trincee sotterranee del rifiuto, una speranza che resiste ai colpi d’ascia della condanna e dell’indignazione.

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Tra i cunicoli della tana si instaurano rapporti che testimoniano l’umanità dei contrabbandieri che la popolano. L’autore dimostra che la vigliaccheria degli Armadilli è l’altra faccia della volontà di sopravvivere, di ribellarsi contro un destino brutale che qualcuno ha disposto per loro. Nel salotto di sua madre, nel salotto di ogni madre, di ogni operaio o uomo qualunque di Buenos Aires, lo schermo dei televisori accesi riordina le sottili strisce di fumo che uniscono i soldati in trincea, i cronisti alla tv offrono agli spettatori il prodotto masticato e digerito della guerra, dei frammenti che compongono il disastro, di migliaia di disastri insignificanti e ridicoli. Per convincere l’opinione pubblica, offrono una ricostruzione infame e ipocrita allo scopo di tenere sospese le coscienze in uno stato catatonico, uno stato fertile in cui coltivare l’indignazione, lo sconcerto, l’avversione, da un lato, e l’adesione dall’altro.

“Questo non è un libro contro la guerra” ammonisce lo scrittore, è un libro “contro una maniera stupida di pensare la guerra”, scritto in una notte, sotto l’influsso frenetico generato dai volti illuminati dagli schermi, rincoglioniti dalle cronache in tv, come morti viventi, marionette reclutate dalla propaganda.

Marco Pianti

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