Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

ALTRO CHE GIORGIA SOLERI, LEGGETE MARIANGELA GUALTIERI (di Matteo Fais)

Un libro acuminato come un verso insinuatosi nei pensieri, profondo come un saggio che si fa riflessione in rima, impalpabile nella sua cristallina brevità oracolare quasi fosse una musica. Può accadere, se a scriverlo è una delle più grandi poetesse viventi, Mariangela Gualtieri. Può addirittura succede che persino i ringraziamenti, luogo deputato alla piaggeria più immonda, in cui il poeta velatamente e volutamente rivela delle sue sotterranee attività di meretricio, grondino di lancinante dolcezza: “Per gratitudine vorrei citare i nomi di tutte e tutti, ma mi sento impastata di loro e non so più dove sia la soglia”.

L’incanto fonico – L’arte di dire la poesia (Einaudi) è un breviario per poeti e amanti della parola lirica che vorrebbero poter gridare la propria passione ai quattro venti, rischiando la vertigine, sgolandosi dal cornicione del palazzo, ma sono costretti a relegarla nel segreto di una camera d’esilio. La poesia, nata per essere detta, pronunciata, cantata e urlata, è invece, oramai, sempre più simile a un’attività antisociale di cui vergognarsi.

Mariangela Gualtieri, L’incanto fonico – L’arte di dire la poesia, Einaudi.

Ciò sa bene la Gualtieri che, da decenni, ha fatto coraggiosamente della rima pubblica professione nei teatri e che con questo testo cerca di spiegarci, evitando la noia didascalica del cattedratico, la necessità per il verso di incontrare e farsi veicolare dalla voce umana. “È nell’oralità che essa vive in pienezza: nel rito sonoro di qualcuno che proferisce, che si è a lungo preparato per farlo, e di una comunità momentanea in ascolto. In quel comune bagno acustico, in quelle onde sonore che disumanizzano la voce umana innalzandola verso gli Dei o verso l’animale, viene moltiplicata l’intensità e la forza penetrante e trasformante del verso. Privandoci della vita orale della poesia, o frequentandola così poco e senza la giusta cura, noi ci priviamo di un’esperienza fondamentale che io oso pensare collocata alla radice della nostra ascesa di specie”.

Più che mai, occorre, attualmente, riscoprire questa possibilità materiale di nutrimento spirituale. Tra talk show, influencer del nulla e logorrea social, “non solo occorre dare parole scritte a questo sfacelo, occorre anche saperle pronunciare nella loro esatta melodia e ritmica, le nostre parole e quelle preziose del passato che come spartiti schiacciati nei libri sono in attesa di trasformarsi in onde sonore”. E sembra quasi di sentirglielo dire, con amorosa pacatezza, mentre accarezza il cuore del lettore con una lametta.

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Ma cosa sarà mai questa poesia, domanderà l’uomo della strada, sordo e pigro, già sbronzo di slogan e inquinamento giornalistico. Impossibile pronunciarsi. Di essa si possono dire tante cose, ma mai la parola definitiva. Certamente, rispetto allo sguaiato tuonare di questo mondo senza interruzioni né pace, bisogna comprendere come “la poesia sia fatta anche di silenzio”. Da qui la necessità, se si vuole restituire una dimensione pubblica alla lirica, di capire “come dare voce al verso sia proprio questo tessere parola e silenzio”. Simili parole, mentre le si legge, bisogna sussurrarle tra sé e sé, sgranandole quasi fossero un rosario di perle.

Come un essere umano per lungo tempo e ingiustamente incarcerato, la lirica chiede di tornare all’aria aperta, nelle piazze, tra la comunità “di farsi viva voce, vuole essere suonata, o cantata, proprio come ogni spartito musicale, fino ad arrivare a quello che Amelia Rosselli chiamava «l’incanto fonico»”.

Ecco, questa dimensione è mancata per troppo tempo. L’intimismo si è imposto, da noi, nella fruizione del verso, per tradizione, come una prigione che ci sia sorta intorno silente e senza scampo. Eppure, “ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi”. Questo e solo questo significa “dare compimento alla poesia”.

La Gualtieri, dall’alto della sua esperienza e con l’umiltà di una vocazione che non ha bisogno delle lusinghe sempre ricercate dai mediocri, spiega come officiare il rituale e ottenere il miracolo: “Poetica e arte dell’oralità scomparire dietro il verso, avere fede nella sua potenza espressiva e lasciarlo vivere da solo, servirlo il più possibile, riducendo al minimo l’ingombro della mia persona”.

Gli strumenti sono pochi, all’apparenza irrilevanti, ma l’arte così difficile, complessa, fatta di monacale dedizione. La voce (“Chiede voce veritiera. Nuda voce non impalcata non accessoriata non potenziata. Nuda voce più nuda”), il silenzio (“Poesia è anche il silenzio che precede e che segue il verso, silenzio che precede e che segue ogni parola dentro il verso. Silenzio dentro ogni parola”), la memoria (“Adorazione di una poesia è impararla a memoria”).  

Leggendo il testo, si vive per interposta persona tutto il travaglio e la gioia dell’attività d’attore. L’impressione è di avere tra le mani le memorie di una santa che, tramite una rivelazione, abbia trovato la fede, dopo tanto pellegrinare tra peccato, abbruttimento e tentazioni: “Imparare a memoria. Esercizio di furiosa attenzione. Provo più volte e non succede. Penso: non riuscirò. Provo ancora e non succede. Provo. Provo. Ancora provo in perfetta idiozia. Poi ecco, ogni parola è con me. In me. L’ordine delle sillabe avviene. Ora so”.

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Per non parlare dell’esperienza sul palco, quel percorso che dalla parola scritta, passando per la fatica fisica e spirituale di chi presta la sua voce, giunge a chiamare gli altri a una sorta di mistica comunione: “Ora l’occhio non è all’ancoraggio del foglio. Si alza libero verso gli astanti. Li guarda. Proprio a loro si parla. Per loro. L’occhio adesso può stare attaccato agli occhi davanti. Occhi negli occhi, come incantamento. E il corpo. Libero anch’esso dalla schiavitù del foglio. Può starsene in offerta immobile”.

La Gualtieri è veramente una creatura celeste, ruba le parole al divino, dà loro il respiro straziato della creatura umana. Consultarla è una delizia disturbante, pura beatitudine, sensuale carezza allo spirito fiaccato dal trauma quotidiano. I suoi testi dovrebbero stare in ogni casa, come quelli sacri. Sono il migliore esorcismo contro la nullità regnante dei vari Ferragnez e l’italica ossessione per personaggi tenuti in vita solo dai media, come la Soleri. Quello che scaturisce da queste poche pagine è “ragionevolezza più alta […] filosofico canto”. Leggetela per purificarvi.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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