Il Detonatore

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PERSINO I PROGRESSISTI SI SONO ACCORTI CHE LA SCHWA È UNA PRESA IN GIRO (di Matteo Fais)

I libri dei progressisti bisogna sempre leggerli, perché il cosmico disagio dei loro autori è quanto di più divertente possa esserci – tutto ciò che Zalone guadagna consapevolmente loro lo ottengono senza neppure rendersene conto. Discettare sull’inutile è la loro attività preferita; esattamente come, a livello politico, il partito di riferimento, si occupa di qualsivoglia questione, purché non si tratti di un problema serio.

Per tutta questa serie di motivi, è sconsigliato negarsi la fruizione di Andrea De Benedetti in Così non schwa (Einaudi), un breve saggio che “nasce dall’urgenza di dare voce a quell’ampia fetta di individui che si riconoscono in valori per brevità definibili come «progressisti», che nei loro comportamenti sono certamente «inclusivi», che aborrono l’ipocrisia pelosa di chi, insieme al linguaggio inclusivo, vorrebbe liquidare anche i diritti delle categorie che lo reclamano, ma che al tempo stesso rimangono affezionati a un’idea democratica di lingua, ritengono sproporzionata e fuori fuoco l’attenzione rivolta al linguaggio come principale fronte di conflitto e terreno di rivendicazioni, e sono un po’ stufi di sentirsi etichettare come vecchi conservatori attaccati ai loro privilegi di maschi bianchi eterosessuali […] per il solo fatto di ritenere impraticabili alcune soluzioni e talora pretestuosi i loro presupposti”. Insomma, un libro per persone segnate dal conflitto tra progressismo e una seppur minima propensione al buonsenso, che però possono leggere anche i sani di mente per capire quanto stiano messi male gli altri.

Andrea De Benedetti, Così non schwa, Einaudi.

De Benedetti, di questo bisogna dargliene atto, ha compreso, come si è soliti dire al bar, che qui, con la storia della “e rovesciata”, la si sta facendo fuori dal vasino. “Non bisogna però mai dimenticare che il cuore del problema sta quasi sempre altrove, che è molto piú facile agire sul lessico che su altri ambiti della lingua, che i significati sono tendenzialmente molto piú importanti dei significanti, che includere certe categorie può significare escluderne delle altre e che le buone pratiche, ove fondate su un nemmeno troppo implicito ricatto morale, rischiano seriamente di convertirsi in cattive regole”. Sobrio fino all’ovvietà, oltre che tedioso, ma indiscutibilmente veritiero, grazie al cielo!

A dirla tutta, il nostro saggista ne azzecca più di una. Se a scrivere certe cose fosse uno di Destra, tranquilli che il prurito intestinale della sua platea sarebbe molto più accentuato. Anche perché, De Benedetti lo mette giù chiaro e tondo, a volte con incredibile cerchiobottismo ma in modo difficile da fraintendere che “il linguaggio inclusivo rappresenta spesso una pura operazione di facciata […] che non ha riflessi sul reale e giova piú alla reputazione e al posizionamento di chi lo usa – a cominciare dai grandi gruppi economici mondiali – che all’esistenza di chi dovrebbe esserne, almeno in teoria, il beneficiario”. Tutto giusto, soprattutto quando si parla dei mancati “riflessi sul reale”. Insomma, se la ditta del servizio elettrico, all’ennesima bolletta non pagata, manda un avviso a un trans che ha perso il lavoro, usando la formula “Gentilissim* Signor*”, non per questo la minaccia di far venire meno il servizio verrà ritirata.

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Certo, poi, nel piccolo breviario di assennato progressismo, non mancano i passaggi pedanti e cavillosi: “Dal punto di vista morfologico – e solo morfologico, sia chiaro – il maschile rappresenta il prototipo, il paradigma, la (questa è abbastanza buffa, lo ammetto) matrice; il femminile è lo spin-off, il derivato, l’apocrifo. È in questo senso che va intesa la definizione di maschile come genere «non marcato»: perché indica l’opposto del femminile e al tempo stesso lo ingloba, mentre il femminile si dice «marcato», nella misura in cui è piú specifico e segna uno scarto rispetto al modello”. Impossibile non smaniare in attesa di sentir suonare la campanella e uscire di corsa fuori dall’aula, fuggendo dalla fastidiosa voce del tizio in giacca da vecchio che parla dalla cattedra.

Il fatto è che l’autore non sa aggredire il problema e, anche quando sostiene qualcosa di smaccatamente vero, che potrebbe addirittura mettere in imbarazzo i suoi lettori, non può mancare di cadere nella fallacia progressista: “In Italia il numero di ricercatrici e ricercatori universitari è pressoché identico […] Allo stesso modo, le donne sotto i 65 anni che svolgono professioni mediche hanno ormai superato i maschi (54 contro 46 per cento), nonostante per indicare la loro qualifica si continui a usare preferibilmente la forma maschile medico anche nella lingua comune. Il fatto che poi le donne non riescano ancora a raggiungere posizioni apicali resta certamente un enorme problema, anzi il problema, ma la morfologia a quel punto non c’entra piú nulla”. Perché, queste sarebbero posizioni insignificanti? Niente da fare, la difesa d’ufficio delle donne, come la famosa favola del gender gap – assolutamente infondata –, sono quasi un intercalare di cui non ci si riesce a liberare, per il sinistro medio. 

Per non parlare di quando, inesorabile, fa capolino, anche in relazione alla schwa, la preoccupazione di come questa possa impattare sugli immigrati che si trovano a dover imparare la nostra lingua (“Senza voler opporre retorica ad altra retorica e senza volerne fare un discorso puramente aritmetico, non suona quantomeno incoerente una soluzione che per includere una minoranza ne esclude un’altra non meno discriminata, e oltretutto molto piú numerosa?”). E, diciamocelo francamente, chi non rinuncerebbe agli italiani “inclusivi e includenti” per dei simpatici extracomunitari che si rifiutano di rispettare le loro identità sessuali immaginarie?! A questo punto: frontiere aperte in entrata, ma soprattutto in uscita!

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Il punto più alto – inconsapevolmente alto – del testo, comunque, arriva quando l’autore descrive questa simpatica scenetta in cui persino un ragazzino di 12 anni riesce a percularlo in modo squisito: “Qualche anno fa, mentre accompagnavo mio figlio dodicenne e due suoi amici a una partita di calcio, dal sedile posteriore dove i tre erano seduti a un certo punto si udí distintamente uno di loro apostrofare un altro con le seguenti parole: «Ehi, ma sei gay?». Al mio timido tentativo di fargli capire che non era un bel modo di rivolgersi a chicchessia, la piccola faccia di bronzo replicò: «Mica gli ho detto: ‘Sei frocio?’», dimostrando di aver perfettamente interiorizzato le forme del protocollo linguistico senza averne colta in alcun modo l’essenza. Per lui non contavano le parole; contavano il significato e l’intenzione. Contava il fatto che i gay, qualunque sostantivo si usasse per definirli, a lui comunque non piacevano”. Fantastico! La forza dirompente dell’ingenuità priva di sovrastrutture, unita alla consapevolezza prerazionale di essere immersi entro una farsa. Il Gian Burrasca ha asfaltato il professorone, gli ha pisciato sulle scarpe, e ruttandogli in faccia sembrava quasi volergli dire “Visto che mi costringete, rispetterò le vostre regolette del cazzo, ma non ce la farete a farmi piacere ciò che, nel profondo di me stesso, trovo ripugnante. Io resto libero”. A quel giovane uomo, dovremmo dire tutti quanti grazie. Rappresenta una delle poche speranze di salvezza contro il 1984 linguistico in atto. Grande!

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.


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