Il Detonatore

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L’INTERVISTA – “NON SI TRATTA DI NEGARE L’EUROPA, MA DI RIPENSARLA” – MARCO E. MALAGUTI INTERVISTATO DA DAVIDE CAVALIERE

Marco E. Malaguti si occupa di politica e temi culturali da oltre dieci anni. Ha fondato il network “Progetto Prometeo” e ha collaborato con EreticaMente ed Atrium. Esperto di Islam e di politica, storia e filosofia dei paesi germanofoni. Collabora con Centro Studi Machiavelli. Tenta di innovare il panorama della Destra italiana.

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Europa mediterranea ed Europa scandinava, Europa cattolica ed Europa protestante, Europa occidentale ed Europa orientale, Europa del vino ed Europa della birra. Il Vecchio Continente può essere diviso in un’infinità di modi, ma cosa lo unisce? Qual è l’identità europea?

Questa è una domanda per rispondere alla quale servirebbero (e sono servite) innumerevoli pagine e libri. Per rispondere alla domanda è necessario immedesimarci nella figura dell’uomo europeo, di qualunque parte del continente egli sia, e pensare assieme a lui. Ci interessa, in questa fase, cosa pensiamo quando si parla di Europa. Che vi sia un’Europa didascalica a cui tutti pensiamo è fuor di dubbio. Tutti, quando pensiamo all’Europa, facciamo apparire nella nostra mente alcune immagini ed alcuni concetti. I castelli, le cattedrali, le grandi architetture gotiche e neoclassiche sono epifanie dell’identità europea, eppure attribuire l’essenza europea ad una tra queste realtà, oppure a tutte esse insieme, costituirebbe un errore. L’insieme delle culture europee, nelle loro espressioni artistiche, letterarie, giuridiche sono certamente Europa, ma l’Europa non si esaurisce negli aspetti singolari che la compongono. La nostra incapacità di quantificare ed oggettivare l’identità europea, che pure percepiamo così bene con gli strumenti dell’intuito, è legata fondamentalmente a questa eccedenza, a questo qualcosa irrimediabilmente sfuggente che, pur permeando tutto, ci sfugge. Torna alla mente il concetto freudiano, ripreso da Heidegger, dell’Unheimlich, un termine tedesco intraducibile che sta a metà tra “perturbante” e “straniero”. Siamo perturbati nel definire l’Europa e tutto ciò che la unifica in quanto essa ci appare, da figli di singole culture nazionali, al contempo in noi e fuori di noi. Uno stato di perturbamento che riposa sullo spaesamento che proviamo nell’impossibilità di tracciare un reale confine tra soggetto osservatore ed oggetto osservato, tra identità ed alterità. In realtà, il concetto di Unheimlich si situa ancora più profondamente all’interno della questione dell’Essere. L’eccedenza non è oggetto, ma tramite, e si configura nel suo apparire perturbante e straniera per il semplice fatto che essa ci è talmente vicina da non esserci più nota. Esattamente come siamo talmente abituati a respirare da dimenticarci di farvi caso, così il nostro percepire le realtà del mondo (e tra queste l’Europa), ci è talmente ovvio da diventare sconosciuto. L’idea di fare caso al battito del nostro cuore ci provoca spaesamento in quanto sottende la terrificante (e fortunatamente impossibile) eventualità che quel battito possa diventare da involontario a volontario. Il tramite in questione, tra ciò che siamo e ciò pensiamo, non è altro che la luce che rende possibile il riconoscimento di oggetti e forme. La loro reale essenza noumenica rimane a noi ignota, ma possiamo percepire dei tratti comuni agli oggetti attraverso questo tramite che è la luce. Un tramite che riempie di flussi lo spazio intermedio tra soggetto ed oggetto, ma che ci è talmente familiare, proprio perché situato ovunque, da risultarci ormai sconosciuto. Il modo in cui questo tramite è utilizzato dagli uomini, o più precisamente l’angolo di penetrazione nel fenomeno da parte del dardo dell’osservazione è precisamente l’essenza dell’identità europea. Incapaci, da uomini, di ottenere un punto di vista sovrasensibile ed assoluto della realtà noumenica delle cose, possiamo soltanto concepirla in maniera parziale, obliqua (a seconda del luogo, della cultura e dei geni che ci sono dati) attraverso l’uso della spaesante “eccedenza” della luce, che non è solamente la luce della fisica, ma è anche luce interiore che permette il delinearsi dei concetti e delle forme intellettuali all’interno della mente. Se ogni essenza, racchiusa dalle pareti del fenomeno, non può essere concepita nella sua realtà assoluta ma solo in quella mediata dai prismi della sua pluralità fenomenica, è chiaro allora che gli osservatori che si troveranno a guardare i medesimi prismi dagli stessi – o poco distanti – punti di osservazione, si troveranno a percepire forme simili, traducendo poi questa esperienza percettiva in modo di vita mimetici che prenderanno la forma di culture più o meno simili tra di loro. Se dovessi quindi rispondere alla domanda “che cos’è l’identità europea?”, non risponderei parlando di un oggetto, né di una pluralità di oggetti, ma sottolineerei il fatto che identità europea è l’angolazione attraverso cui percepiamo gli oggetti, la cui reale essenza ci rimane però ignota. Il nostro modo di percepire ciò che ci sta attorno, di farne esperienza, e dunque di partorire a nostra volta nuove forme, è la prassi costitutiva della nostra identità, oggettivamente indefinibile proprio perché non possiede l’essenza di un oggetto.

Da decenni si discute di unità dell’Europa, ma per quale ragione gli europei dovrebbero unirsi in una casa comune?

Si tratta fondamentalmente di una problematica legata al destino. Per secoli gli Europei hanno forgiato i destini del mondo. Di più, da Cartesio in poi hanno anche sancito nero su bianco come tutta l’esistenza fosse una mera questione di volontà di esistenza e pensiero. Vogliamo ancora essere padroni del nostro destino? Questa è la domanda fondamentale. È l’Europa stessa ad aver innescato il rimpicciolimento del pianeta esportando le sue tecnologie e la sua missione civilizzatrice. Il rimpicciolimento degli spazi ha fatto sì che i piccoli stati diventassero minuscoli, che i grandi stati diventassero medi e che gli immensi spazi continentali diventassero l’equivalente di quello che storicamente furono gli stati nazionali. Oggi i grandi colossi come Stati Uniti, Russia, Cina ed India si fronteggiano esattamente come nel Seicento lo facevano Francia, Gran Bretagna, Spagna e Russia. In ogni caso parliamo sempre di pochi attori che si contano sulle dita di una mano. Per sopravvivere a questo processo di riduzione, gli stati Europei non possono far altro che accrescersi, diventare un grande spazio retto da un unico governo. L’alternativa è fare la fine dell’Italia post-rinascimentale, ossia diventare una via di mezzo tra un museo ed un accampamento militare per stranieri. Certo, potremmo, per rifiutare i sacrifici che ciò comporta, incrociare le braccia e goderci il nostro tenore di vita, ma si tratta di una prospettiva miope. In un contesto di scarsità come quello che si delinea nella prospettiva di un’umanità che presto avrà duplicato la sua popolazione, procurarsi le risorse necessarie al benessere risulterà problematico se si sarà piccoli: la superiorità culturale, peraltro non riconosciuta da gran parte del mondo, che ha canoni di giudizio differenti, non ci salverà. La signoria sul proprio destino, ossia la vera Sovranità, si esplicita nelle forme di esercizio di potenza economica e militare. L’alterità di ogni ente rispetto ad un altro si misura essenzialmente nella sua capacità di auto-discriminarsi dall’altro. C’è quindi un taglio, una frattura, una ferita che deve rimanere aperta, e per mantenerla aperta occorrono le debite lame, o l’Altro non può fare diversamente, come in un gioco di vasi comunicanti, che prorompere nel nostro spazio, che in geopolitica corrisponde al nostro essere. Se l’Europa non si dota dei mezzi necessari a questa discriminazione fondamentale sarà inevitabile che essa, in tutte le sue parti, diventi effettivamente parte dell’Altro.

L’attuale Unione Europea è piena di difetti e contraddizioni, ritieni che debba essere abbattuta o riformata? Quale forma dovrà adottare la UE del futuro: federazione di Stati o Stato sovranazionale?

Se dovessimo salvare soltanto ciò che è privo di difetti e contraddizioni non rimarrebbe che il nulla, non solo in ambito politico e geopolitico, ma per tutto ciò che riguarda l’esistente. L’Italia, in tal caso, sarebbe la prima a dover sparire, ma la questione della riforma è più complessa e merita una riflessione. Il processo di rimpicciolimento degli spazi di cui ho parlato nella domanda precedente non riguarda solo l’Europa, ma l’intero pianeta. L’Europa ne è il simbolo in quanto qui, come al solito, i refoli del progresso, che nelle periferie del globo diventano uragani, spirano per primi: capitalismo e tecnica, perlomeno nelle loro forme moderne, sono nati qui. Quando i burocrati dell’Unione Europea sostengono che l’UE è irreversibile sbagliano probabilmente nella forma, ma non nella sostanza. L’UE, come ogni struttura umana (come gli stati nazione, gli antichi imperi ecc.) è ovviamente caduca e mortale, ma i processi che ne hanno portato alla formazione sono, quelli sì, irreversibili. Ciò non significa che questi processi non possano essere compromessi (ad esempio da una catastrofe planetaria) ma semplicemente che tornare allo status quo precedente è e sarà sempre impossibile. Il “tempo delle mele” sognato dai “sovranelli” di casa nostra, per essere chiari, non tornerà. L’Europa può quindi scegliere se essere attrice consapevole del rimpicciolimento come è stata fino ad ora grazie all’UE ed ai suoi padri costituenti, oppure se subirne il processo, ovvero finendo risucchiata in orbite altrui. Si tratta anche qui di scelte, fortunatamente in gran parte al riparo dalla volontà popolare. La storia della Svizzera viene in aiuto alla mia risposta riguardo alla seconda parte della domanda: la Confederazione Elvetica è un modello vincente di cosa potrebbe essere una fruttuosa integrazione tra parti d’Europa differenti per lingua, storia e religione. Leggi comuni, federalismo, Stato presente ma non invadente, sono le chiavi per vincere la sfida. Se cominciassimo a pensare all’UE come ad una grande Svizzera ed ai singoli stati nazionali come cantoni potremmo avvicinarci al modello che a mio avviso costituisce il punto d’arrivo ideale dell’integrazione europea.

In che termini dovrà articolare il suo rapporto con gli Stati Uniti d’America? E con Israele?

La narrativa di una certa destra “antisistema” ascrive troppo facilmente Stati Uniti e Israele alla stessa matrice “occidentale” (come se l’Europa non fosse Occidente), ma Stati Uniti ed Israele, come Stati, hanno esigenze nettamente diverse, motivo per cui l’approccio dell’Europa non può che essere diversificato in merito. Gli Stati Uniti d’America sono a tutti gli effetti un impero, probabilmente l’ultimo rimasto. Come tutti gli imperi essi prosperano sul divide et impera. È chiaro quindi che essi non possano vedere di buon occhio l’integrazione di un blocco geopolitico potenzialmente in grado di far loro concorrenza. Durante la guerra fredda, ovunque l’Europa, all’epoca ancora sotto forma di singoli stati nazionali, abbia cercato di proporsi come terza forza alternativa ai due blocchi, gli interessi americani e sovietici si sono trovati a collimare. Lo abbiamo visto nei finanziamenti bipartisan alla guerriglia anti-portoghese in Angola, nella freddezza della NATO verso la Francia durante la guerra di indipendenza algerina, i cui ribelli del FL erano apertamente appoggiati dall’URSS (altro impero, defunto). L’Europa deve quindi, almeno all’inizio, dimostrare agli Stati Uniti che il suo sorgere come grande potenza non rappresenta un pericolo per l’esistenza dell’impero di Washington. L’Africa, in questa prospettiva, è provvidenziale: si tratta da sempre di un continente di scarso interesse per gli USA, dove l’Europa potrebbe esercitare una sua dottrina Monroe, riconoscendo al contempo agli americani la loro sfera di influenza in America Latina e nel Mar dei Caraibi. Ciò ci mette però in rotta di collisione con la Cina, la quale ha anch’essa individuato la sua sfera di influenza nell’Africa. Questo semplifica enormemente i rapporti euro-americani, in quanto la Cina è e sarà sempre di più la grande nemica degli americani nel XXI secolo. Certo, è vero che in questo momento è l’Europa stessa ad essere parte della sfera di influenza americana, ma Washington sa realisticamente di non poter controllare direttamente l’intero pianeta, specialmente se la cesura russo-cinese dovesse continuare a consolidarsi. C’è qualcosa, tra Stati Uniti ed Europa, che ricorda i rapporti tra le Tredici Colonie e l’antica madrepatria britannica: sono entrambi attori troppo potenzialmente forti per combattersi, oltre che per essere l’uno schiavo dell’altro, ed al contempo sono altrettanto troppo forti per avere interessi identici. Una entente cordiale simile a quella che regolava i rapporti tra Stati Uniti ed Impero Britannico, quando quest’ultimo esisteva, potrebbe essere una buona strada per un rapporto proficuo per entrambi. Per Israele il discorso è differente: Israele non è un impero, ma un piccolo etnostato il cui unico fine in politica estera è tanto semplice quanto cruciale: sopravvivere. I rapporti tra Europa unificata ed Israele saranno quindi decisi da come l’Europa intenderà rispondere a questo istinto di sopravvivenza che lo Stato di Israele manifesta fin dalla sua nascita. L’UE occhieggia, purtroppo, in maniera ambigua e faziosa ai nemici di Israele, tra i quali Turchia ed Iran, i quali hanno ben saputo ricambiare finanziando i secessionismi islamici in Bosnia (è il caso dell’Iran agli inizi degli anni Novanta) e sobillando l’invasione dell’Europa da parte di ondate di immigrati arabi, come è nel caso della Turchia di Erdogan). Israele in tal senso può avere un ruolo importante per la geopolitica europea, rappresentando una punta di diamante pericolosamente vicina al cuore di un mondo islamico fattosi demograficamente e ideologicamente minaccioso. In questo l’Europa, che è molto più vicina geograficamente ad Israele rispetto agli Stati Uniti, può ambire addirittura a scalzare Washington dal suo ruolo di tutore principale di Gerusalemme, tornando a giocare un ruolo da protagonista in una regione, il Medio Oriente, fino ad ora appannaggio assoluto dell’America. Israele a sua volta ha molto da guadagnare da un’Europa forte, coesa e conscia della propria identità: se il grande spazio europeo da Lisbona a Capo Nord dovesse diventare qualcosa di simile ad una grande tendopoli più o meno islamizzata, a poco servirebbe il lontano alleato americano, ed Israele si troverebbe strangolata nel suo stesso mare. Penso che Netanyahu ed altri importanti membri della politica israeliana siano perfettamente consci di questo fatto, motivo per il quale persone come George Soros ed altri rappresentanti del globalismo politico ed intellettuale non sono graditi in Israele.

Da quali riferimenti culturali ritieni si debba ripartire per edificare un’Europa unita e sovrana?

Ho accennato prima al ruolo del concetto di progresso nella storia d’Europa. La destra Europea, che rappresenta il pensiero europeo in senso stretto, ha purtroppo completamente abdicato alla sua missione civilizzatrice, regalando forse l’elemento più caratterizzante del pensiero europeo al paradigma che chiamiamo, appunto, progressista, ma che io chiamerei semplicemente livellatore. Se parlo di progresso parlo evidentemente di volontà, di ferma oggettivazione dell’istinto vitale diretto all’accrescimento, Wille zur Macht. In questo senso il nome del progetto che io e Francesco D. Casini abbiamo fondato insieme chiarisce il punto di partenza di questa genealogia culturale che vede come sua capostipite l’idea di volontà. Possiamo definire il pensiero europeo da Platone in poi come un grande itinerario all’interno della prospettiva nichilistica, o ancor di più, come una progressiva presa di coscienza di una condizione nichilistica già di per sé data. Si tratta di utilizzare il prisma di cui ho accennato nella risposta alla prima domanda, questa volta in maniera consapevole. Cartesio aveva già delineato, dando qui inizio alla saga del pensiero razionalista, l’idea di un mondo come prodotto essenzialmente mentale. Il suo dubbio disgregatore a cui non è sopravvissuta che l’idea di Soggetto, doveva aprire la via, nelle sue intenzioni, all’edificazione di un nuovo edificio morale, che il pensatore e matematico francese non ha però mai edificato. Il compito è rimasto disatteso dai posteri, cartesiani e meno che fossero. Nondimeno ci viene in soccorso un grande patrimonio culturale e filosofico: il giovane Nietzsche della “Nascita della tragedia” ci insegna come in questo orizzonte nichilistico di assenza di scopo è la volontà a decidere cosa vogliamo che ci appaia incantato e cosa no, e mentre Feuerbach si scandalizzava, pur con aria canzonatoria, dell’alienazione religiosa, il giovane Nietzsche si fa portatore di una nuova alienazione, questa volta armata di una dionisiaca consapevolezza, le cui radici erano rintracciate nel mondo classico. In poche parole, da “cogito ergo sum”, a “volo ergo sum”, laddove però la volontà si esprima non nella forma di monade desiderante tipica del nuovo mondo neocapitalistico, quanto piuttosto in quella “clanica” e prospettivistica, identitaria, a cui ho accennato nella prima domanda. Questa specificazione ha radici eminentemente gerarchiche. La volontà non può conoscere limiti, non si può accontentare di un orizzonte mortale: gli uomini presto soccombono al tempo, ma non soccombe al tempo la vita, e con essa modo degli uomini di percepirla. Walter Friedrich Otto sosteneva che questo modo di percepire non fosse altro, nella sua pluralità di stimoli, che l’insieme degli Dei così come concepiti dalla religione mitica degli Elleni, e anche se questo non è argomento della mia risposta, va sottolineato come si tratti di una prospettiva tanto nichilistica, ossia essenzialmente europea, quanto profondamente antiglobalista. In tale ottica anche il cosiddetto relativismo assume una veste nuova: da evidenza terrificante dell’informe, ad invito a conferire le forme stesse dietro imperativo della volontà sovrana. In questo senso un grande pensatore come Henri Bergson, che ha sottomesso persino l’idea di tempo al modo nel quale lo percepiamo, può correrci in aiuto nel codificare un pensiero europeo che sia non sia né nuovo né antico, ma eterno. Si tratta quindi di abbattere, in maniera provocatoriamente postmoderna, ogni confine tra realtà e mito, che come ben sapevano gli antichi, “non è mai accaduto perché esso è sempre”. Max Horkheimer e Theodor Adorno avevano compreso la sterilità della razionalità puramente strumentale, e non è casuale che nel denunciarla siano ricorsi ai topoi del mito classico. Anche questi due autori, considerati tra i padri del globalismo, hanno in realtà molto, forse loro malgrado, da insegnarci, così come Friedrich Schiller, drammaturgo e filosofo caro ad un altro francofortese, Herbert Marcuse, la cui filosofia della storia ricorda, almeno nelle sue forme, quella di Hegel, altra colonna portante che solo apparentemente fa a pugni con le altre che ho nominato.

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Ultima e più prosaica domanda: come giudichi il neonato governo Draghi?

Giudicarlo ora è semplicemente impossibile, occorre aspettare ancora un po’ di tempo per far emergere le prime vere differenze, l’auspicato cambio di passo rispetto al disgraziato Conte Bis. Possiamo però fare qualche considerazione sulla sua necessità: il governo Conte Bis è stato forse il governo più inadeguato della storia repubblicana. Alla sua inadeguatezza si sommavano due elementi fatali: da un lato la devastante pandemia in atto, dall’altro la debolezza delle forze governative all’interno del Parlamento, con una risicatissima maggioranza al Senato. In questo senso, che il governo precedente sia stato sostituito da un governo che magari non farà faville ma che sarà quantomeno forte nei numeri è già di per sé una buona notizia, così come è una buona notizia il fatto che Matteo Salvini, probabilmente imbeccato da Giorgetti, abbia voluto partecipare alla sua formazione assieme a Forza Italia. In merito a ciò sono rimasto deluso da Giorgia Meloni, la quale non ha capito che quello a cui abbiamo assistito non è stato un semplice avvicendamento di governi, né tantomeno un golpe bianco come quello a cui assistemmo tra Berlusconi e Monti nel 2011, quanto piuttosto la nascita di un gabinetto di salvezza nazionale che non ha precedenti dai tempi della Costituente. In questo senso, l’appello al popolo sovrano ed alle elezioni non ha senso, siamo in pieno stato d’eccezione e temo che Fratelli d’Italia pagherà a lungo il non aver voluto prendere parte, anche in funzione di contrasto agli appetiti assistenzialistici di pentastellati e PD, al governo di unità nazionale. Draghi è una persona stimata a livello internazionale, se c’è qualcosa che ciò può aiutare a fare è, innanzitutto, arginare la rovinosa tendenza dei leader stranieri, quando c’è bisogno di parlare con l’Italia, a rivolgersi al Quirinale e mai a Palazzo Chigi dove, va detto, spesso mandiamo il peggio della nostra già sgangherata politica. Sul resto, ripeto ancora una volta, mi rimetto al giudizio del tempo, che, come al solito, sarà galantuomo.

Davide Cavaliere

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